Sing Street

C’è una piccola scena in Screen Street che racchiude l’anima del film.
Dublino anni ’80, due fratelli si esaltano guardando in Tv il videoclip di Rio dei Duran Duran mentre il padre, uno sprezzante Aiden Gillen, sentenzia da un angolo della sala: «Hey, tranquilli, questi non sono esattamente i Beatles! E poi non cantano neanche del vivo»; immediata la risposta del figlio maggiore: «Questo è un video, è arte, è il futuro, qualcosa che durerà per sempre».
Sentire versus vedere. In questa ineluttabile ribellione verso i propri vecchi, i giovani rivendicano che la musica non sia qualcosa solo da ascoltare; la musica è piuttosto qualcosa da vedere e, soprattutto, la musica deve essere la lente attraverso cui guardare il mondo. È infatti vedendo e vivendo la vita con gli occhi della nostra musica preferita, vestendo i look dei propri idoli – dai Cure a David Bowie passando per gli Spandau Ballet –, che il quattordicenne Cosmo riesce a trovare un proprio posto nel mondo, a coprire con le sue canzoni ad alto volume le urla dei genitori, a sovraincidere il suo disagio arrivando a essere se non felice almeno “felice-triste”, per citare le sue stesse parole.
La salvezza di Cosmo è aver capito sin da subito il potere visionario della musica tanto che il primo gesto artistico della sua neonata band è appunto girare un videoclip, ben consapevole che Video Kills the Radio Stars come cantavano profeticamente i The Buggles nel 1979.

Come già in Once e Tutto può cambiare, John Carney compone un inno alla musica dai toni delicati e poetici. Ancora una volta, la sua regia ha una precisione chirurgica nel dosare i sentimenti senza cadere nel melenso ma lasciando una persistente amarezza: l’originalità del regista irlandese risiede nel celebrare il potere salvifico della musica senza però farne il deus ex machina che tutto crea e tutto risolve, e tutti fa innamorare e tutti rende felici. Una scelta ben evidente nei suoi precedenti lavori dove il rapporto tra i due protagonisti non si concludeva mai in una banale love-story; e se in Sing Street la storia d’amore c’è, è comunque tormentata e scorre parallela ad altri sub-plot come quello del rapporto col fratello maggiore, anima sognante arenata nei suoi errori che spinge Cosmo a non essere come lui ma a partire e a pensare in grande.

Un altro aspetto interessante di Sing Street è la verità con cui il film fotografa l’adolescenza. Carney è maestro nel rendere il valore assoluto di quell’età, quando le passioni sono totalizzanti ma la pelle è anche sottile e le delusioni bruciano di più. Il regista ha colto alla perfezione il problema della definizione della propria identità: a 14 anni si è fatti di materia estremamente malleabile che si cerca di plasmare, come già annotato, a immagine e somiglianza dei propri idoli. Ma il bello, a quella età, è che non si è fedeli: un giorno si può essere David Bowie e quello dopo Robert Smith perché non si è nostalgici bensì dei “futuristi” pronti ad assorbire, a far proprio, tutto quello che c’è di nuovo. In questo senso, non è un caso che Raphina, la ragazza amata da Cosmo, sia una modella: un corpo su cui proiettare i propri ideali, i propri immaginari rendendola enigmatica, sempre diversa da se stessa, inafferrabile.
Grazie alla musica, poi, si riesce a capire chi si è, chi si ama, a riconoscere i propri simili e a sentirsi meno soli: con la stessa delicatezza e lo stesso realismo di This is England (giusto per spostarci nella vicina Inghilterra restando negli stessi anni ’80), il regista mostra anche come l’appartenenza a un gruppo – sia esso una band di “musica futurista” o degli skinhead – diventi per i teenager una questione di sopravvivenza

Produzione indipendente passata sotto i riflettori del Sundance e del Festival di Roma, Sing Street è un piccolo-grande film. E questo grazie, oltre a tutte le riflessioni che innesca e che vi abbiamo raccontato sopra, ai credibilissimi interpreti, a un’ironia sottile, a una colonna sonora indelebile, alla fotografia che dipinge cieli grigi e plumbei ma non manca di sottolineare con una luce più calda gli sprazzi di intangibile felicità come nella scena del ritorno sul treno dopo che la band ha girato il suo secondo videoclip sul lungomare. Senza dimenticare il finale bellissimo e di grande forza metaforica che immerge Cosmo e Raphina (e noi spettatori con loro) nel mare aperto della realtà, del disincanto, dove i sogni si trasformano in onde altissime che ti schiaffeggiano, ti fanno vacillare, ti sommergono, ti fanno ingoiare litri di acqua salata. Eppure tu non puoi che continuare a fuggire, a guardare avanti, a scappare verso il futuro perché, come ha insegnato il fratello di Cosmo, “questa è la tua vita e tu la devi guidare come se l’avessi rubata”.

Mi piace
La regia di John Carney che compone un inno alla musica dai toni delicati e poetici senza mai cadere nel sentimentalismo. E poi, la verità con cui il film fotografa l’adolescenza, gli interpreti credibilissimi, l’ironia sottile, la una colonna sonora indelebile.

Non mi piace 
Nella seconda parte il ritmo cala leggermente.

Consigliato a chi
A chi ama il cinema indipendente e a chi pensa che la vita debba essere vista con gli occhi della musica.

Voto : 4/5

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