Sinister: la recensione di Gabriele Ferrari

Che fine ha fatto Ethan Hawke, ex bravo ragazzo dalla faccia pulita di cult generazionali come L’attimo fuggente e Prima dell’alba? Facile: come molti suoi colleghi in cerca di una seconda giovinezza in un genere florido di uscite come l’horror, ha appena cambiato casa insieme a moglie (Juliet Rylance) e figli (Clare FoleyMichael Hall D’Addario), trasferendosi in una magione un po’ inquietante nella quale che negli anni ha fatto da sfondo a una serie di atroci delitti e facendo qui la conoscenza di apparizioni demoniache e bambini morti in modo poco convenzionale. Ultimo arrivato nel neonato filone “ville infestate da fantasmi” (la bolla immobiliare che ha dato il via alla crisi ha colpito duro l’immaginario degli americani), con un piede nell’horror classico e un altro nel found footage in stile Paranormal Activity, Sinister è anche uno dei migliori e più coraggiosi del lotto – i vari The Apparition, The Possession, Dream House –, un ottimo modo per riscattarsi per un regista (Scott Derrickson) il cui curriculum è macchiato da Ultimatum alla Terra e per un attore (Hawke) che in carriera non ha mai raccolto quanto avrebbe meritato.

Al di là di una trama dallo sviluppo tutto sommato prevedibile – la struttura è quella classica del genere: prime apparizioni => confusione => altre apparizioni => consulto con l’esperto => gran finale –, il grande pregio di Sinister sta nella miscela inusuale tra film “classico” e found footage; la scusa sono una serie di nastri in Super 8 che il protagonista Ellison, scrittore e autore di libri su famosi casi di cronaca nera, trova nella cantina della sua nuova casa. Ogni nastro ritrae un omicidio avvenuto tra le mura domestiche, che rende la magione una sorta di Overlook Hotel in minore. Sgranati e amatoriali come Blair Witch Project comanda, questi filmati sono forse l’aspetto più genuinamente spaventoso (e coraggioso) di Sinister: violenti e grezzi, non hanno bisogno di “momenti bu” e volume che schizza alle stelle per terrorizzare e disturbare, anche grazie al notevole uso-quasi-abuso di bambini compiuto da Derrickson. Per contrasto, il resto del film viaggia su territori più educati, da horror hollywoodiano di questi tempi: ai momenti di tensione e paura segue subito una scena più tranquilla e ragionata, quasi un favore fatto a quella parte di pubblico che di horror non vive ma che non vuole rinunciare a un paio di salti sulla sedia.

La più grande sorpresa, però, viene proprio da Hawke, che tra voce arrochita dal fumo e rughe sotto gli occhi riesce a dar vita a un personaggio (lo scrittore disilluso e cinicamente ostinato a far soldi sulle tragedie altrui) di forte impronta kinghiana ma ben più sfaccettato della media del genere; altrettanto piacevole è scoprire un grande caratterista come Vincent D’Onofrio accollarsi con classe il ruolo del professore/deus ex machina, a riprova che non sempre i grossi nomi accettano questi ruoli solo per far cassa. Nella media dell’onesto mestierante è invece tutto il comparto tecnico: regia, fotografia, colonna sonora, tutto anonimo quanto basta da essere funzionale alla paura. Che non manca e che, soprattutto grazie a un paio di intuizioni decisamente sopra le righe (soprattutto nel finale, che è sempre un bene) e ai confini del buon gusto, non si dimentica tanto facilmente. Un bel colpo di coda per un genere che tra mille cloni di un modello stantìo stava cominciando a mostrare la corda, e la dimostrazione che basta poco (un’intuizione brillante, una commistione di generi, bambini-killer) per incollare lo spettatore alla sedia.

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Mi piace
La commistione found footage/film tradizionale funziona – anche perché gira alla larga dalla trappola del “meta-” – e fa paura. Ethan Hawke è un protagonista convincente.

Non mi piace
Tutto sommato prevedibile, e un po’ troppo educato nelle parti non-found-footage.

Consigliato a chi
Ama l’horror, in particolare quello a base di case stregate, e stava cominciando a perdere la fiducia nel genere.

Voto: 3/5

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