Source Code: la recensione di Gabriele Ferrari

C’era chi diceva, ancora negli anni ’50, che la fantascienza fosse un genere freddo, tutto cervello e niente cuore; elucubrazioni intellettualoidi per geni da dopolavoro emotivamente immaturi. Che questo qualcuno avesse ragione o meno (indizio: aveva torto, pensate a Blade Runner), Source Code potrebbe essere l’epitaffio su queste critiche. In parte techno-thriller – se state pensando a Inception non siete fuori strada –, in parte storia d’amore, la seconda opera di Duncan Jones è il miglior film à-la-Dick non tratto dai romanzi di Philip K che sia mai stato girato. Costruito su una sceneggiatura impeccabile, Source Code offre allo spettatore un microcosmo ricco e internamente coerente nel quale immergersi. A patto di accettare le stiracchiature nel comparto-scienza, che si ispira a teorie generosamente definibili come “borderline” e che coinvolgono un non meglio specificato utilizzo della meccanica quantistica.
Jones si conferma regista virtuoso e insieme minimalista, e il suo stile brilla perché raramente invadente; la marcia in più, ancora più che in Moon, è nella sua capacità di affrescare personaggi (meglio, persone) con cui è impossibile non empatizzare. La deriva sentimentale, che sul finale inquina la perfezione dell’alchimia, non sottrae quasi nulla a un film moderno, stimolante ed eticamente provocatorio.

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Mi piace
La sceneggiatura costruita alla perfezione. La regia, minimale e mai invadente ma che gronda stile. Le interpretazioni di Jake Gyllenhaal, vera Farmiga e soprattutto Michelle Monaghan.

Non mi piace
Gli ultimi minuti potrebbero far storcere il naso a qualcuno. La colonna sonora sembra composta in fretta e furia e si integra male con il resto.

Consigliato a chi
Vuole scoprire il miglior regista di sci-fi in circolazione.

Voto: 4/5

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