The Mule

Diretto e interpretato da Clint Eastwood, scritto dallo stesso sceneggiatore di Gran Torino, il film racconta la storia di un uomo che alla soglia degli ottant'anni si ritrova a fare il corriere per un cartello della droga messicano. La nostra recensione

Clint Eastwood in The Mule
PANORAMICA
Regia (4)
Interpretazioni (3.5)
Sceneggiatura (4)
Fotografia (3.5)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (3.5)

SPQA: sono pazzi questi americani. Scopro che nella sua recensione di The Mule, Peter Debruge (Variety) lamenta il fatto che il protagonista Earl Stone, un novantenne conservatore con una famiglia sfasciata che finisce a fare il “mulo” – cioè il corriere della droga – per il cartello di Sinaloa, è un cattivo esempio per il pubblico.
E non per il suo lavoro di “trasportatore”, badate bene, ma per il gergo vagamente razzista – da vecchio conservatore – che usa alla leggera. Insomma: il cinema valutato come un manuale di educazione civica.

Il film, basato su una sceneggiatura di Nick Schenk, già autore di Gran Torino e The Judge (e si sente lontano un miglio), riprende la storia vera di Leo Sharp, un ultra ottantenne che attraversò per quasi dieci anni gli Stati Uniti con il bagagliaio pieno di cocaina, eludendo i controlli della polizia grazie a un profilo ben lontano dallo stereotipo dello spacciatore latino-americano. Su questo spunto, ricavato da un articolo del The New York Times, Schenk immagina il suo protagonista come un floricultore abituato a girare le fiere del paese al volante, messo improvvisamente fuori causa dall’avvento delle vendite online e obbligato a cercare un’alternativa.

Il ruolo sembra fatto apposta per Eastwood, che veste con facilità i panni del commesso viaggiatore amante della bella vita, generoso con tutti, ma capace di una completa sospensione della morale. Il suo Earl Stone è un vecchietto coriaceo e con la risposta sempre pronta, un self made man che non accetta consigli da nessuno e sorride sarcastico di fronte alle sopravvenute necessità linguistiche del politicamente corretto – si tratti di una banda di motocicliste lesbiche, di una famiglia di colore o dei messicani con cui si trova a lavorare. Un carattere che da un lato lo ha allontanato dalla famiglia (la figlia non gli parla da 12 anni, da quando cioè si è perso il suo matrimonio) e dall’altro lo posiziona in quel territorio politico che tanto spaventa il giornalismo democratico americano.

E invece, come quasi sempre nel cinema di Eastwood, il cuore della faccenda sono proprio i rapporti sentimentali, che precedono e definiscono tutto il resto.
Da un lato quelli privati, quindi la distanza tra Earl e la sua famiglia, che nel corso del film si allunga e accorcia. Una tensione interiore che è in contrasto con le missioni per il narcotraffico, ovvero con il piacere di stare sulla strada, liberi e indipendenti, che si tratti di spostare fiori o sostanze stupefacenti.
Dall’altro quelli pubblici, quindi la distanza tra Earl e il mondo, come se rivoluzione tecnologica e codici sociali progressisti fossero le diverse facce di una deformazione solo di forma e mai di sostanza, che di conseguenza lo respinge.

Questo continua a interessare a Eastwood, la definizione di uno statuto morale che possa essere condiviso indipendentemente dall’età o dalle scelte in cabina elettorale. La ricostruzione di un mondo e di un sistema per viverlo, prima della globalizzazione e della nuova Babele che ne è originata.
Per questo i suoi film si chiudono sempre con una scelta che è allo stesso tempo un’assunzione di responsabilità e un ricongiungimento; per questo tra chi insegue e chi è inseguito, tra chi minaccia e chi è minacciato, tra le istituzioni e l’individuo (e, volendo, tra il cinema e lo spettatore), ci deve essere alla fine una comprensione e un armistizio.

Capirete bene che tutto il portato romantico e anti-ideologico di un’intera carriera qui è ancora perfettamente, miracolosamente intatto.
Capirete bene che The Mule impegna anche stavolta a fondo il cuore dello spettatore, mentre segue con divertimento una storia messa in scena come sempre alla perfezione, tre quarti di commedia e uno di dramma.
E se proprio è la politica da talk show che interessa, meglio allora concentrarsi sulla scena in cui la DEA ferma un latino-americano solo perché risponde allo stereotipo di cui va in cerca. E mentre quello scende dalla sua auto, spaventato a morte, continua a ripetere: “Statisticamente parlando, questi sono i cinque minuti più pericolosi della mia vita!”.

© RIPRODUZIONE RISERVATA