Via Castellana Bandiera: la recensione di Silvia Urban

È domenica pomeriggio e il sole surriscalda Palermo e gli animi di chi lungo quelle strade si muove nervoso. Come Rosa (Emma Dante), che si perde nel labirinto della sua città natale, dove è tornata solo per accompagnare la compagna Clara (Alba Rohrwacher) al matrimonio di un amico. Quella terra è per lei motivo di dolore; ricordo di una madre con la quale si è sempre scontrata (e, si capirà, non ha mai accettato l’omosessualità della figlia). Alla guida della sua Multipla imbocca Via Castellana Bandiera. Nello stesso momento, in senso contrario, compare anche la Punto di Samira (Elena Cotta) che, dopo aver compiuto il quotidiano rituale sulla tomba della figlia (ogni giorno la pulisce, sfama i cani randagi che si affollano attorno e poi ci si sdraia sopra), sta riportando a casa la sua famiglia: i Calafiore. Le due donne fermano le rispettive auto a pochi centimetri l’una dall’altra, premono con forza il clacson, poi decidono di spegnere i motori. Nessuna delle due ha intenzione di fare retromarcia e cedere il passo all’altra: è questione di vita o di morte.

Emma Dante, apprezzata regista teatrale, debutta sul grande schermo (nel doppio ruolo di attrice e regista) con l’adattamento di un suo stesso romanzo. Un’opera che ha il sapore di un duello western giocato a colpi di sguardi e silenzi, dove a parlare – e a speculare, scommettendo su chi tra le due l’avrà vinta – è solo la gente che, incuriosita, esce dalle case o a sua volta rimane bloccata da quello scontro frontale. Un’impasse inevitabile, così almeno appare, fino a quando è la macchina da presa stessa a lasciare intravedere la possibilità di una risoluzione e a mostrarci la via in tutta la sua larghezza.
È allora che quelle due auto bloccate in mezzo alla strada acquistano il loro valore metaforico e diventano fotografia dell’immobilismo di un intero Paese e la testardaggine dei suoi abitanti, che hanno perso la voglia di comunicare, di incontrarsi, di convivere. Una società che ha perso la propria umanità e che si rende protagonista di gesti insensati. Non c’è nulla di eroico nel rifiuto di acqua, cibo e sonno da parte di Rosa e Samira. C’è solo il dolore di due donne troppo stanche di soffrire e di lottare per smettere di farlo e che non hanno più nulla (o forse hanno tutto) da perdere.

Svuotata di qualsiasi teatralità, la regia di Emma Dante inquadra il reale ma ci conduce altrove ed è capace di scene corali di forte impatto (vedi quella in cui le donne del quartiere salgono sulla macchina di Rosa per metterla in guardia da Samira) ma anche di “assoli” che nei dettagli rivelano la loro poesia (la sequenza in cui le due protagoniste, senza dire una parola, si osservano, si sfidano e marcano il territorio), servendosi, però, di qualche cliché di troppo nella fotografia di un Sud che sistematicamente sfugge alle regole civili e alla legalità. Puntata sul duello, la macchina da presa – così come la sceneggiatura – perde un po’ di vista il percorso di Clara (che prima si allontana dal campo di battaglia per poi farvi ritorno) e di conseguenza il confronto affettivo tra le due donne, che viene solo suggerito.

In primissimo piano all’interno di questo quadro che riflette l’irrequietezza e la decadenza del nostro Mezzogiorno, il volto segnato di Elena Cotta, che dice tutto pur senza aprire bocca. Meritata Coppa Volpi al Festival di Venezia.

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Mi piace
L’originalità dell’idea e il suo valore metaforico, ma anche, la regia capace di tradurla sullo schermo attraverso soluzioni visive interessanti.

Non mi piace
I cliché usati (anzi, abusati) nella descrizione del nostro Mezzogiorno. La macchina da presa insiste sul duello, perdendo di vista il percorso di Clara e l’evoluzione del rapporto con Rosa.

Consigliato a chi
Già apprezza il talento di Emma Dante, ma anche a chi è curioso di assistere a un duello all’italiana che restituisce tutto il nonsense e l’immobilismo della nostra società e dei nostri tempi.

Voto
3/5

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