Il trono di spade, la recensione della stagione finale della serie più importante del decennio

Non c'è nulla di più potente di una storia, dice Tyrion a un certo punto... e questa storia non è stata certo il migliore dei finali possibili.

finale

Da poco più di un giorno è finita Il trono di spade, una serie che ha trascinato enormi masse di spettatori, raggiungendo numeri mai visti sulla TV via cavo e facendo parlare di sé in tutto il mondo, sempre di più anno dopo anno, chiudendo con ascolti da record.

Ad accompagnare gli altissimi rating ci sono state però grandi polemiche, che dal terzo episodio in poi hanno segnato l’esperienza collettiva di questa stagione conclusiva, distinguendosi a vari livelli: dalle (legittime) proteste dal basso, simboleggiate dalla petizione per far riscrivere l’intera stagione a “scrittori competenti”, fino alla gigantesca mole di analisi molto critiche nei confronti dell’annata da parte delle riviste specializzate americane.

Il series finale arriva come uno degli episodi più attesi della storia della televisione, ma anche in un clima tutt’altro che sereno, perché dopo le violente contestazioni agli episodi precedenti era impossibile immaginare una conclusione conciliante, tanto che gli stessi autori hanno messo le mani avanti affermando che in tanti sarebbero rimasti delusi.
In effetti non è semplice rimanere soddisfatti da questo epilogo, anche perché da una serie come Il trono di spade bisogna pretendere l’eccellenza – e non ci si può accontentare di un finale imperfetto ma giusto (secondo alcuni) – esattamente come la si è pretesa (e in molti casi ricevuta) da pietre miliari come The Sopranos, Lost, Mad Men, Breaking Bad, Girls o The Americans.

Questo episodio finale si può dividere sostanzialmente in due parti: la prima conclude l’arco ancora aperto dalla precedente puntata e dà un epilogo al personaggio di Daenerys, la seconda tenta (un po’ goffamente) di tirare le fila della stagione e salutare il pubblico nel miglior modo possibile.
Nei primi minuti vediamo il completamento del passaggio al lato oscuro di Daenerys, con gli autori che riprendono l’iconografia nazista per sottolineare la sparizione totale di ogni interesse pacifico, liberatorio e antipatriarcale del personaggio in favore di una perenne e fieramente totalitaria strategia del terrore. Il problema in questo caso non è tanto il punto d’arrivo, ma come ci si è arrivati, perché i tanti segnali disseminati nel corso di questa e delle precedenti stagioni non giustificano minimamente una svolta del genere.
A quel punto l’omicidio da parte di Jon appare quasi inevitabile, anche se il modo in cui viene messo in scena è tutt’altro che efficace: salutiamo uno dei personaggi più amati della serie senza alcuna lacrima, perché otto anni di legame sincero sono stati spazzati via da svolte narrative che hanno compromesso la credibilità del personaggio e una storia d’amore mai sviluppata in maniera decente.

La seconda parte dell’episodio non è purtroppo più riuscita della prima, soprattutto perché gli autori, facendo affidamento sulle eccellenti doti interpretative di Peter Dinklage, pensano di poter ritornare al Tyrion di un tempo nonostante quello attuale sia molto diverso, decisamente lontano dall’arguto manipolatore delle prime stagioni. Dopo aver sbagliato qualsiasi cosa nell’ultima annata, infatti, Tyrion diventa la soluzione a tutti i problemi, riuscendo prima a convincere Jon ad ammazzare a tradimento la donna che ama e poi a persuadere i rappresentanti di tutti i regni di Westeros che in fondo Bran è il re più meritevole di tutti.
In un solo monologo Tyrion risolve la situazione e nessuno dei personaggi del Trono di spade ha più qualcosa da ridire, perché le ambizioni di ciascuno finiscono inibite di fronte alla legittimità (inesistente) di Bran, che senza alcuna ragione diventa l’ultimo re della serie.

La strategia che gli autori hanno usato per persuadere i personaggi (e in secondo luogo anche gli spettatori) è quella di puntare sulla meta-narrazione, esaltando attraverso Tyrion il potere delle storie, sottolineando che nessuna delle figure esistenti avrebbe una storia più efficace di quella di Bran. Questa soluzione appare decisamente debole, perché a quella stessa riunione ce ne sono diverse di persone con storie da raccontare che non hanno nulla da invidiare a quella di Bran, a cominciare dalle sorelle Stark, il cui percorso ha avuto un’evoluzione che le ha viste come soggetti proattivi, capaci di superare ostacoli di enorme entità e di autodeterminarsi con coraggio.
L’intera scena rischia inoltre di suonare quasi come una presa in giro, perché l’impalcatura del monologo non vuole solo ribadire il valore della storia di Bran ma rimanda anche alla potenza narrativa di Game of Thrones, ovvero alla grande storia a cui – a una lettura di secondo grado – si riferisce Tyrion. Il problema è che questo tipo di discorso, oltre a essere pesantemente autocelebrativo e quindi non proprio la cosa più elegante del mondo, risulta involontariamente ironico perché arriva al termine di una stagione il cui storytelling è stato tutt’altro che efficace, tanto da compromettere per certi versi il giudizio sull’intera serie.

Non possiamo chiudere questa recensione senza aver detto qualcosa sul trattamento riservato ai personaggi femminili. Il trono di spade è una serie che ha giovato di una grande quantità di protagoniste nate dall’eccezionale creatività di George R.R. Martin, la cui gestione da parte degli autori della serie è stata però spesso molto criticata e in quest’ultima stagione – anche per via di esigenze narrative che hanno spinto a sacrificare alcuni personaggi – la cosa è stata talmente evidente da non poter più passare inosservata.
La rivendicazione dell’essenzialità dello stupro da parte di Sansa, l’integerrima Brienne sedotta, abbandonata e ripresa a scrivere la storia dell’uomo che le ha cambiato i connotati (come personaggio), Missandei usata come grilletto per far impazzire Daenerys, Cersei che da fine stratega passa una stagione intera immobilizzata su un balcone, Arya che dopo aver superato mille mila insidie arriva a pochi metri dal suo obiettivo di sempre per poi desistere perché un uomo le spiega che questi sono giochi da grandi ed è meglio lasciar perdere, e infine la stessa Daenerys che dopo essere stata il modello per tante bambine nel corso di questi otto anni si ritrova a essere, una volta preso il potere, la più classica delle donne instabili e non adatte a governare perché emotivamente non equilibrate e incapaci di non prendere le cose sul personale.

Il problema non è che Il trono di spade si è rivelata una serie sessista, o almeno non dal punto di vista dell’intenzionalità. Una gestione del genere dei personaggi femminili è in parte la conseguenza di una scrittura raffazzonata, che per fare le cose in fretta privilegiando i momenti spettacolari ha trascurato l’attenzione ai dettagli e alla stratificazione del racconto, che per quanto riguarda i personaggi femminili vuol dire quasi sempre fare ricorso pigramente a stereotipi sessisti che da sempre hanno popolato le narrazioni di cui ci nutriamo.
Le cose sono andate in questo modo anche perché la nettissima maggioranza dei racconti (dalla letteratura, al cinema, alla televisione) sono stati scritti da uomini e purtroppo anche Il trono di spade non fa eccezione. In oltre settanta episodi, infatti, ci sono state solo due sceneggiatrici, nonostante il numero e l’importanza delle figure femminili della serie. Una rappresentazione dignitosa dei personaggi passa anche da questo e serve a poco mascherare un tale trattamento con gli alibi del genere (fantasy) e dell’ambientazione storica, perché sono tanti gli esempi di show televisivi ambientati nel passato e/o dai contorni soprannaturali che sono riusciti a costruire personaggi femminili eccezionali e dotati di uno sguardo proprio e ben costruito, a cominciare da Outlander, Wynonna Earp e The Magicians, non a caso ricchi di donne nelle loro writers’ room.

Con questa stagione se ne va una delle serie più importanti della televisione contemporanea, uno show che ha cambiato il modo di intendere un evento televisivo e che forse verrà ricordato come l’ultimo grande fenomeno capace di sincronizzare così tanti spettatori davanti al piccolo schermo. È davvero un peccato però dover constatare che, forse per la fretta, forse per mancanza di idee realmente efficaci, questa indimenticabile serie non ha ricevuto il finale che meritava, sia per quanto riguarda l’episodio conclusivo che allargando il discorso all’intera ottava e ultima stagione.

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