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Venezia 74: Nico, 1988, la fragilità oltre l’icona. La recensione del film italiano sulla modella rockstar

Lontano dal biopic classico, il film della Nicchiarelli sorprende puntando su un respiro europeo e su una splendida protagonista, Tryne Dyrholm

Venezia 74: Nico, 1988, la fragilità oltre l’icona. La recensione del film italiano sulla modella rockstar

Lontano dal biopic classico, il film della Nicchiarelli sorprende puntando su un respiro europeo e su una splendida protagonista, Tryne Dyrholm

Nico di Susanna Nicchiarelli

Nico, al secolo Christa Päffgen (Tryne Dyrholm) è stata consegnata all’immortalità dalla collaborazione con i Velvet Underground, un periodo della sua vita artistica che l’ha tramutata in un’icona senza tempo. Una leggenda alla quale ha contribuito la sua voce cupissima eppure sognante, perfetta per esprimere una malinconia straziante e senza nome, dalle radici profonde, lontane. Ben presto però la vita ha preso il sopravvento e di quella modella tedesca prestata meravigliosamente al canto, nota come la “Sacerdotessa delle Tenebre” e cullata dal genio di Andy Warhol, è rimasto in vita solo il ricordo sbiadito.

Non è frequente nel cinema italiano imbattersi in un film dal respiro autenticamente europeo come Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli (Cosmonauta, La scoperta dell’alba), film d’apertura della sezione Orizzonti in una Mostra del cinema di Venezia che sul cinema italiano non ha fatto mistero di puntare moltissimo. L’operazione è intelligente e consapevole soprattutto perché evita i limiti del biopic classico, che per una figura così eterea e sfuggente, immortalata e amata da mille artisti nel tentativo di rubarle l’anima, avrebbe avuto ancor meno senso del solito. Non solo perché tutte le vite raccontate dall’inizio alla fine si somigliano un po’ tutte, come sostiene la regista, ma perché si tratta di un percorso accidentato, fatto di opposti inconciliabili («Sono stata in cima e ho toccato il fondo: entrambi i posti sono vuoti», dice Nico stessa).

Il film della Nicchiarelli invece, fin dall’indicazione temporale del titolo, sceglie una puntualità di sguardo e di messa in scena che gli fa onore: si sofferma sui postumi di un’esistenza e una carriera schiacciate dal peso della fama, sulle crepe degli anni ’80 che seguirono la sospensione psichedelica e immemore dei ’70, in cui era ancora possibile rintanarsi in una bolla senza  conseguenze e credere davvero di poterle silenziare. Ma anche su quello che resta di una scia luminosa fatta di effimere illusioni, sui fantasmi di una maternità in frantumi.

Lo fa con uno stile elettrico e sconnesso che della voce di Nico restituisce la sofferenza graffiante ma in fondo docile e sconclusionata, e forse proprio per questo motivo doppiamente struggente. La prova mimetica dell’eccezionale protagonista, l’attrice danese Tryne Dyrholm, è il cuore del film (basterebbe la sequenza dell’esecuzione dal vivo del meraviglioso brano My Heart is Empty), ma a colpire è la sensibilità partecipe dell’approccio. Non mancano le ingenuità e le carenze, le ridondanze e le forzature (in primis i riferimenti al tour italiano, con tanto di straniante cast nostrano completamente fuori posto), ma l’insieme è solido a tal punto da sporcarsi le mani con temi importanti come l’identità tedesca (Berlino, l’Olocausto, l’epopea dei Nibelunghi) e la riflessione sul tempo: data la frattura col passato, a contare può essere solo e soltanto il presente, l’attimo, l’istante di vita oltre il quale tutto brucia e si dissolve.

Qui la nostra sezione dedicata alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia.

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