Cannes 2012, Le Guetteur, Argentero bandito in fuga per Placido. La recensione

Presentato al mercato dei film il poliziesco francese diretto dal regista di Vallanzasca

Nota – Accanto alla selezione ufficiale di Cannes 65, e ai film delle sezioni collaterali al Festival (Quenzaine des Rèalisateurs, Semaine de la Critique), nelle multisale del centro cittadino vanno in scena anche le proiezioni del Marché, ovvero i film che vengono mostrati ai distributori cinematografici dei singoli paesi e, in alcuni di essi, ancora disponibili per la vendita. Best Movie sarà presente anche lì, per parlarvi dei titoli più interessanti. Come nel caso di Le Guetteur, l’atteso polar di Michele Placido, che ritorna al poliziesco dopo Vallanzasca.

Una banda di rapinatori sta per mettere a segno l’ennesimo colpo, ma il commissario Mattei (Daniel Auteuil) e la sua squadra li aspettano al varco, dopo averli pedinati per settimane. Peccato che a vigilare sui banditi ci sia un cecchino, Krasinski (Matthieu Kassovitz), appostato da qualche parte sui tetti di Parigi. Sotto una pioggia di proiettili la banda se la fila, nonostante uno dei 4, Nico (Luca Argentero, in versione baffuta), si becchi un proiettile nella pancia. Mattei scatena allora una caccia all’uomo e, complice una soffiata, l’unico a finire in manette è proprio Krasinski. Chi è che ha tradito e si è fregato il bottino? Nel frattempo iniziano pure a sparire delle ragazze. E viene fuori che Mattei, per indagare sulla faccenda, ha un movente personale.

Polar con cast D.O.C. che Michele Placido, regista e interprete in un cameo, si è guadagnato con il buon successo di Vallanzasca in Francia. Le Guetteur (Il cecchino) paga soprattutto qualche pasticcio di troppo in fase di montaggio: per sbrigare la storia senza lungaggini si esagera con i sottintesi e ogni tanto gira un po’ la testa. Molta camera a mano, appiccicata ai corpi, senza che i corpi dicano granché, e una sensazione non trascurabile di impaccio a usare i luoghi comuni di un genere che in Francia è maneggiato con frequenza e fortune paragonabili alla nostra farsa di costume. Manca, e probabilmente era inevitabile, anche il rapporto senza filtri con la città, tetti e vicoli, che specie nella prima rapina invece di entrare armonicamente nel quadro quasi sembrano una quinta di cartone: quando l’inquadratura si allarga, il film non respira comunque.
Non proprio un disastro, non proprio un trionfo: fosse un film italiano lo saluteremmo contenti, ma da Marchal in giù, oltralpe c’è tutta una scuola di cui tener conto.

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