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Cannes 2018: Under the Silver Lake di David Robert Mitchell. La recensione

Un noir allucinato, tra Lynch e i Coen, su un ragazzo in cerca di una ragazza scomparsa, in una Los Angeles surreale e distratta

Cannes 2018: Under the Silver Lake di David Robert Mitchell. La recensione

Un noir allucinato, tra Lynch e i Coen, su un ragazzo in cerca di una ragazza scomparsa, in una Los Angeles surreale e distratta

Andrew Garfield in Under the Silver Lake

Il film è presentato in concorso al Festival di Cannes 2018.

LA STORIA

Sam (Andrew Garfield) ha due problemi. Il primo è che non riesce a pagare l’affitto e tra poco lo sfratteranno dal suo bell’appartamento a Los Angeles.
Il secondo è che la sua affascinante vicina (Riley Keough), con la quale il giorno prima è quasi finito a letto, è scomparsa nel nulla. Si metterà a cercarla inseguendo le sue tracce, ma per lo più improvvisando.

LA CRITICA

Dopo aver raccontato i sobborghi di Detroir usando – a modo suo – il teen movie (The Myth of American Sleepover) e l’horror (It Follows), David Robert Mitchell stavolta si sposta a Los Angeles e prende in prestito i codici del noir – dell’hard-boiled in particolare – sbrindellandoli a suo piacimento, fino ad approdare a una zona franca dove il grottesco non è esattamente spaventoso come in Lynch, né divertente come nei Coen. Under the Silver Lake ha piuttosto la qualità ipnotica e solare di Vizio di Forma di Paul Thomas Anderson (o di certo Hitchcock, che a un certo punto viene esplicitamente omaggiato), dove il mistero non prevede davvero un giallo da risolvere quanto una consapevolezza da raggiungere, una qualche percezione della realtà.

Qui la consapevolezza inseguita dal protagonista è rappresentata dalla sua vicina di casa che non si sa dove sia finita, ed è una faccenda generazionale e di classe. Mentre vive, attendendo lo sfratto, in un appartamento che non si può permettere e guida una macchina di cui non paga le rate, Sam si domanda come faccia “la gente ricca” a comunicare, quali codici si nascondano negli avvisi dei cani scomparsi attaccati ai pali della luce (e viene in mente Cuori in Atlantide di Stephen King), nelle piantine disegnate sulle scatole di cereali, nelle affissioni pubblicitarie per strada o nei misteriosi testi di una band indie-emo che suona nei cimiteri.

Passa da un rooftop a un appartamento di lusso, dall’Hollywood Forever Cemetery all’osservatorio Griffith, insegue indizi che non si capisce se esistano oppure no, convintissimo che la risoluzione del complotto sia alla sua portata. Ma quale complotto? Perché il dubbio resta, e forse questo ragazzo che gira per la città con lo sguardo allucinato, che va alle feste in pigiama, che vede ombre misteriose nascondersi nel giardino di casa (o addirittura nella credenza), che prende a pugni chiunque si metta sulla sua strada, che scova misteriosi rifugi antiatomici, forse – dicevamo – è soltanto uno squilibrato ossessionato dalla cultura pop e dalla sua dimensione capitalistica, ed è al suo delirio che stiamo assistendo.

Forse, poi, questa massa di segni e segnali sono solo circostanze qualunque, ed è la mancanza di una X sotto cui poter scavare il vero problema: non solo del protagonista, ma di tutta questa generazione di ventenni losangelini che ciondolano dalla tarda mattinata fino a notte fonda nelle loro t-shirt colorate.
Perché come nella sequenza più bella del film, quella sottolineata dalle note di What’s the Frequency, Kenneth? dei R.E.M. (vera controparte musicale di Mitchell), su quale frequenza viaggi la loro Storia alla fine non è chiaro a nessuno.

VOTO A CALDO: 7 1/2

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Foto – Courtesy of Festival di Cannes

 

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