Intervista esclusiva a Jamie Foxx: «Django è una cosa seria»

L’infanzia con la nonna in un Texas razzista, il rapporto con Tarantino, l’incontro epico con Franco Nero. E, sul set, un cavallo davvero speciale. Chiacchierata a cuore aperto con il protagonista dello spaghetti western di Quentin, che ci spiega perché il film ci lascerà a bocca aperta

La prima cosa che Jamie Foxx dice è che per lui Django Unchained, la storia dello schiavo liberato che si vendica dei suoi aguzzini – confezionata da Tarantino come uno spaghetti western – è un fatto personale e molto serio. Siamo a San Diego, in un grande albergo sulla baia, dentro una sala da ballo gelida d’aria condizionata. Jamie ha una camicia blu che i muscoli gonfiano per quanto lo consentono le cuciture e un cappello nero con la tesa stretta, impercettibilmente obliquo. Per raccontarti la sua storia non ha nemmeno bisogno di una domanda. «Mia nonna mi aveva insegnato a suonare il piano per tirare su qualche soldo (Jamie è nato a Terrell, in Texas, ed è stato cresciuto dai genitori di sua madre adottiva, ndr). Suonavo per la strada ed ero piuttosto bravo, tanto che in città più o meno mi conoscevano tutti. A 16 anni, per le feste di Natale, mi presento con un amico per suonare in una Country House. Il padrone mi viene ad aprire e mi fa: “Non posso mica tenere due negri qui dentro… Lui può aspettare in strada”. Allora mi dà una giacca, io entro e mi metto a suonare, e ignoro le battutine razziste che sento».
Come faceva a isolarsi da tutto?
«Mia nonna mi diceva: “Quando suoni in quelle situazioni, è come se tu fossi parte della mobilia, non fare caso a quel che dicono”».
Com’è finita quella sera?
«A un certo punto la moglie del proprietario mi dice: “Mi dispiace per quel che sta succedendo, ma non potresti suonarci questa canzone?” e io inizio a cantare (a questo punto imita una voce da bimbo e improvvisa qualche nota di un vecchio canto natalizio, una cosa da brividi, ndr). E poi un’altra canzone, e un’altra, come se fossi un juke box. Alla fine prendo i miei soldi, li metto via, restituisco quella giacca e penso che quella giacca non la voglio mettere mai più».
Non è stato molto tempo fa, a pensarci bene.
«Era il 1984».
È più tornato da quelle parti?
«Ci sono tornato, in quella città e mi sono accorto che alla fine avevo colmato quel gap. L’occasione era una specie di Jamie Foxx Day organizzato apposta per me. Una notte me ne stavo andando in giro con i miei vecchi amici. Erano le due di mattina e incontriamo per strada questi tizi con le braccia piene di tatuaggi e il cappello da cowboy e per un attimo quasi penso che possa finire male e invece questi mi fanno: “Ehi Jamie, come va?! Ci saremo anche noi domani alla tua giornata!”. È stato incredibile perché questa è la stessa città in cui, quando Obama è diventato presidente, la notizia non era sulla prima pagina del giornale locale».
Per questo si sente legato al personaggio di Django?
«Per questo ritengo necessario che le storie come quella di Django vengano raccontate. Racconta cose successe in America non molto tempo fa, e qualcosa di quel mondo ancora resiste. Se penso a quelli che oggi hanno dai 16 anni in su, che siano bianchi o neri, di certo hanno un modo di guardare alle cose che dipende da come li abbiamo allevati».

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