Festival di Roma 2010: Dog Sweat toglie il velo all’Iran moderno

Il film d'esordio dell'iraniano Hossein Keshaverz cerca di far cadere i luoghi comuni sull'Iran raccontando i drammi di sei giovani in conflitto con i genitori e la tradizione

Hossein Keshavarz debutta alla regia con Dog Sweat, in concorso al Festival del Cinema di Roma. Le storie di sei giovani iraniani in conflitto con se stessi e con una nazione che, sotto il regime attuale, nega loro ogni libertà di espressione culturale diversa da quella ufficiale. Tra il mondo occidentale e l’Iran c’è un muro che Hossein Keshavarz intende abbattere con il suo film, girato clandestinamente per sfuggire ai controlli della censura:  se le uniche immagini che vengono pubblicate dai media nazionali sono quelle di un popolo <<di pii credenti>> (per usare le parole del regista), anche dall’esterno è difficile capire quali siano i reali problemi che le persone affrontano. <<Non è il velo la maggior preoccupazione delle donne, ma essere libere di andare all’università, ad esempio>>. L’urgenza di comunicare al mondo cosa c’è dietro quel muro è alla base di Dog Sweat. Non solo drammi, ma soprattutto la vitalità di una generazione che tenta di vivere la propria vita in maniera normale, che pensa al sesso e si diverte come nel resto del mondo. E’ chiara l’intenzione del regista di stupire attraverso la normalità e stravolgere i luoghi comuni alimentati dai media sull’Iran, mostrando al resto del mondo che dietro il regime ci sono persone che vivono  le stesse vicende umane che viviamo noi in occidente: conflitti generazionali, pene d’amore, difficoltà di realizzazione, lutti, tradimenti.  Quello che è diverso, è evidente, è il senso di frustrazione che pervade i giovani davanti all’impossibilità di cambiare la propria strada, il senso di abbandono e lo sconforto che nè la religione nè lo stato riescono più ad offrire ad una generazione che vive guardando (forse troppo) ad occidente.

La gioventù iraniana si sta rendendo conto che fuori dai confini del paese si vive meglio,  che, almeno, si può scegliere. Non possono comunicare questo disagio ai loro genitori,  ma non sono in grado di scegliere liberamente del proprio destino: emblematica è in tal senso la storia della ragazza che vuole fare la cantante mentre la madre pensa che la felicità sia solo nella famiglia. Non c’è possibilità di dialogo, l’unica alternativa a combattere è arrendersi alle convenzioni sociali, accettare il matrimonio pur di liberarsi del controllo dei genitori e in questo modo cominciare a morire dentro.

Lo stile fin troppo asciutto, quasi brutale, scelto da Keshaverz riflette l’urgenza sociale più che quella artistica a scapito della godibilitù del film, ma la scelta di lasciare sostanzialmente in sospeso tutte le vicende, indipendentemente dalla piega che sembrano prendere, comunica al pubblico che il problema è ancora irrisolto e  il muro è ancora in piedi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA