Festival di Roma 2012: la nostra recensione di Bullet to the Head

Sylvester Stallone più Walter Hill uguale trionfo sicuro

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Verrà forse ricordata come “l’edizione dei film russi”, ma se dovessimo indicare un fotogramma, uno solo, da riportare a casa come simbolo della settima edizione del Festival di Roma sceglieremmo il corpo ricoperto di tatuaggi di Sylvester Stallone, che, torso nudo e sguardo di ghiaccio, punta una pistola in faccia a un poveraccio sullo sfondo di uno squallido hammam di periferia.

C’è tutto quello che serve sapere su Bullet to the Head, in questa immagine: un vecchio eroe che a sessant’anni si mangia ancora lo schermo come nessuno dei suoi emuli più giovani, la violenza di un film fieramente retrò e subdolamente moderno insieme, il talento di uno dei più  grandi registi del trentennio, l’ironia di una pellicola che sa che per fare grande cinema non bisogna prendersi troppo sul serio. Soprattutto, la voglia di cinema di due monumenti che non vogliono saperne di abbandonare il campo, che sanno ancora, unici al mondo o quasi, come si fa a girare un film di genere senza intrappolarlo tra le dorate sbarre della nostalgia.

Un passo alla volta. Bullet to the Head, tratto da una graphic novel francese firmata Alexis Nolent, è il nuovo film di Walter Hill, a dieci anni da quel gioiello che era Undisputed. È anche la prima pellicola da protagonista assoluto per Sylvester Stallone (Mercenari esclusi) dopo il John Rambo del 2008. È l’evento più atteso al Festival da cinefili e appassionati di cinema pop, perché in grado di coniugare l’appeal di una stella come Sly e di un autore eccezionale come Hill. È anche, ve lo diciamo per rassicurarvi subito, uno dei migliori film visti qui e uno degli action classici più belli degli ultimi tempi (sì, meglio dei Mercenari). È un buddy movie alimentato dall’odio e dai contrasti tra i due protagonisti più che dalla più classica amicizia, è un film d’azione in cui l’azione è sempre in primo piano, e ai discorsoni filosofici che piagano tanto cinema di genere ultimamente si sostuiscono one liner e battutacce che riportano alla mente Marion “Cobra” Cobretti. È violento, esilarante, crudele e diretto, girato con maestria e assoluto controllo della materia da Hill.

È, soprattutto, la storia di Jimmy Bobo, killer amorale in un’immaginaria versione di New Orleans che sembra uscita (guarda caso) da un fumetto, dove i poliziotti sono corrotti, i vicoli luridi, le donne belle e quasi sempre nude. Incontriamo Bobo durante un “lavoro”, uno dei tanti, che si conclude in tragedia con la morte del socio Louis; caso vuole che nell’incidente sia coinvolto anche il partner di Taylor (Sung Kang), detective di Washington in trasferta in Louisiana. La buddy couple è pronta, ed è improbabile quanto lo era quella formata da Bruce Willis e Damon Wayans in L’ultimo boyscout. Ma se nel capolavoro di Tony Scott il disprezzo sfociava in ammirazione e poi in sincera amicizia, qui la mano di Walter Hill afferra Sly per la collottola e lo sbatte a dimenarsi nel limbo della solitudine: il rapporto tra Bobo e Taylor è di riluttante collaborazione, la tensione è costante, non c’è spazio per sorrisi o pacche sulle spalle. Come fossimo in un western urbano e non in un gangster movie (a meno che non siano la stessa cosa).

E i cattivi, fulcro di ogni storia di criminali che si rispetti? Semplice: sono corrotti, perversi, naturalmente straricchi e circondati di donne nude. Stereotipato? Fin troppo anni Ottanta? Non siete soddisfatti? Ecco a voi Keegan (Jason Momoa), enorme, sarcastico, brutale, convinto di essere un eroe (negativo) e non un normale criminale. «Non mi fido mai di chi non fa le cose per i soldi ma per passione» gli dice Morel, politico corrotto nonché il suo datore di lavoro. Keegan è il villain che serve a una storia simile, interessato più alla violenza che alla ricompensa, spietato e senza scrupoli; Momoa gli presta corpo e ghigno, confermando di essere un attore da tenere in considerazione, uno che ha quel genere di fisicità che manca ai moderni idoli action da questo lato di Jason Statham. Non è un caso che quando lui e Sly si scontrano si trattenga il fiato per cinque minuti buoni, per poi alzarsi e applaudire.

Bullet to the Head è quindi un capolavoro? Probabilmente no, ma non certo per via di difetti manifesti; semmai, ha il problema di rivolgersi a un pubblico molto preciso, nonché di sfruttare un’estetica che, per quanto aggiornata, ha le sue radici nel cinema di genere anni Settanta (a tal proposito: effetti speciali quasi assenti). Non esattamente qualcosa che vada molto, al cinema, ma abbastanza da far scrivere, di getto, quasi cinquemila battute a chi queste cose le ama visceralmente. Dovrebbe bastarvi per decidere.

Nota a margine: la sala Sinopoli, stamattina all’anteprima stampa, era gremita, e c’era di tutto sulle poltrone, dalle signore anziane ai ventenni rampanti. Durante il film sono abbondate le risate e le urla di gioia, mentre sui titoli di coda è scattato un applauso convinto e unanime. Avrà pure sessant’anni e le rughe, ma Stallone è ancora uno dei pochi in grado di mettere d’accordo tutti.

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