Padroni di casa: Intervista esclusiva al protagonista Elio Germano

Abbiamo incontrato l'attore a Locarno, dove il film di Gabbriellini era in concorso. Ecco cosa ci ha raccontato del suo ultimo progetto e della sua carriera

Il 4 ottobre, debutterà nelle nostre sale Padroni di casa, seconda opera del regista di B.B. E il Cormorano, Edoardo Gabbriellini, già presentata ad agosto al 65° Festival del Film Locarno. In un paesino dell’appennino Tosco-Emiliano che rappresenta un ipotetico «ovunque», approdano due fratelli romani, Cosimo ed Elia (Valerio Mastandrea – che ha collaborato anche alla sceneggiatura – ed Elio Germano), per ristrutturare la casa di un popolare cantante ormai ritiratosi dalla scene, Fausto Mieli, interpretato da un inedito Gianni Morandi. Amato e al contempo odiato dalla comunità locale, vive in una grande villa del paese insieme alla moglie Moira (Valeria Bruni Tedeschi), costretta dalla malattia su una sedia a rotelle. Dietro un’unione apparentemente serena, nonostante le difficoltà, tra i due si cela una profonda ostilità. La stessa che, a poco a poco, si palesa tra gli abitanti della piccola comunità all’arrivo dei due operai “stranieri”, mentre fervono i preparativi per il concerto rentrée di Mieli. «Tutti personaggi fragili, incapaci di essere animali sociali» come sottolinea Germano, che abbiamo incontrato proprio durante il Festival svizzero.

Nel film, il suo personaggio è percepito come uno straniero, una minaccia. Le è mai capitato di vivere nella realtà una sensazione del genere?
«Sì, in continuazione. Anche se il film non è incentrato sulla diffidenza e sullo straniero, piuttosto su ciò che succede quando una persona di un altro ambiente, qualcuno che non conosciamo si avvicina a noi. La storia dei due operai che entrano in questa comunità è un espediente per raccontare delle forme di disagio sociale che viviamo quotidianamente, del fatto che spesso siamo ancorati a delle rappresentazioni per vivere e che quando queste rappresentazioni vengono distrutte andiamo in forte crisi e spesso la violenza nasce da queste circostanze. È una patologia dei tempi moderni e il film l’affronta senza fare tesi o facili moralismi»

Sembra che il cinema riesca a percepire dei disagi che le istituzioni non comprendono. È questo il compito del cinema, dell’arte?
«L’arte offre sempre uno sguardo diverso e forse serve a farci vedere le cose da un altro punto di vista. La politica, in questa epoca storica, è più preoccupata di inseguire i voti anziché cercare di migliorare la vita degli elettori. Chi fa arte in maniera sincera, senza puntare agli incassi, ottiene risultati migliori in questo senso»

Ci sono, invece, ancora dei tabù nel cinema? Argomenti caldi che suscitano polemiche?
«Ognuno ha i proprio. Ma in Italia sono davvero molte le cose di cui non si parla. Se arrivasse un extraterrestre vedrebbe un mondo completamente governato dalla follia. Dove vengono fatti tagli alla sanità e alla scuola, ma si investe sugli aerei militari. Cose che sfuggono a qualunque tipo di logica»

Nel 2010 ritirando il premio a Cannes lo aveva dedicato «all’Italia e agli italiani, che fanno di tutto per rendere l’Italia un paese migliore nonostante la loro classe dirigente»… è cambiato qualcosa? C’è speranza per questo Paese?
«Assolutamente non è cambiato niente. Ma la speranza fortunatamente c’è. Il senso delle cose che ho detto a Cannes, che hanno suscitato tutte quelle polemiche…»

Beh, ma se lo aspettava…
«No, assolutamente no. Ci tenevo soltanto a schierarmi con una parte dell’Italia. Non era un discorso politico, cioè non partitico. Ma nasceva dal senso di appartenenza al mondo del lavoro. In tutti gli ambienti di lavoro – e non solo in Italia, anche se qui è una patologia più forte –, ci sono le persone che amano il proprio lavoro, che fanno il proprio mestiere per necessità umana, per passione e che quindi si mettono a disposizione e sacrificano il loro tempo libero e tante altre cose per quello in cui credono. E tante altre persone che hanno avuto accesso a quel posto di lavoro per vie traverse, per comodità, per conoscenze, parentele, e che non solo non fanno il lavoro che gli piace e per cui sono tagliati, ma si approfittano di quei poveri scemi, che si sacrificano per tutti. E molto spesso chi riceve i premi, chi va avanti, chi fa carriera, non sono le persone che lo meritano. Quando ero a Cannes ci tenevo a dedicare quel premio alle persone, che  hanno dedicato la loro vita a un lavoro e non hanno mai avuto successo, non sono mai state menzionate perché vengono “pubblicizzate” altre persone. Perché dietro un progetto ci sono sempre nomi più famosi. Ma l’Italia è fatta così. Le scuole sono fatte così, gli ospedali sono fatti così, i tribunali sono fatti così. La speranza è proprio rivolta a questa Italia che si mette a disposizione e che spesso è costretta a lottare contro lo Stato. Perché lo Stato tutela il vincente della nostra società, che è il più furbo, il più immanicato, quello che si fa meno scrupoli, il meno sentimentale, il più freddo, il più calcolatore. E quindi una volta tanto mi è sembrato giusto dare voce a chi non ce l’ha. Non pensavo di suscitare polemiche perché non era una polemica la mia. Era un gesto d’orgoglio perché sento di appartenere a quella parte d’Italia che ho descritto e ho sempre scontato le conseguenze della passione per il mio mestiere. Perché ho visto altre persone scavalcarmi, prendere 10 volte il mio stipendio e fare la metà del lavoro e quindi quella volta – dato che non penso di dover ringraziare qualcuno se non Daniele Luchetti, che mi ha scelto per quel film – ho sentito la possibilità di manifestare l’orgoglio di appartenere a una classe di lavoratori che non fanno le cose per raccontarle in giro, ma perché ci credono e a volte scontano le conseguenze di questa appartenenza»

Dunque, appartiene a un gruppo di persone che sacrifica il proprio tempo libero per il lavoro. Lei tra cinema, teatro, fiction tv lavora in continuazione. Nel suo tempo libero per cosa rimane spazio?
«Mi trovo a condividere spazi e luoghi con persone, che cercano di mettere il proprio tempo libero a disposizione di altre. Tante luoghi di ritrovo della nostra città (Roma, ndr) di spazi occupati e a volte restituiti alla popolazione esistono grazie a persone che mettono il proprio tempo libero a disposizione della collettività. A volte vengono accusate di essere parte di gruppi di violenti o facinorosi contestatori. Mentre si battono per offrire servizi che ormai le istituzioni non garantiscono più. Io nel mio tempo libero, a parte dedicarmi a situazioni del genere con la nascita di alcune associazioni come Artisti 607 (una nostra associazione di categoria per i diritti connessi) o a spazi occupati come il Cinema Palazzo o il Teatro Valle, frequento contesti simili . Ecco, mi piace vivere questa Italia ed essere ottimista»

E’ considerato uno dei migliori attori italiani di oggi, se non il migliore…
«Beh, questa è una bella provocazione»

Una fama che ha raggiunto anche grazie ai registi che l’hanno scelta. Nel tempo forse si è costruito un’immagine da primo della classe…
«No, anzi, non lo sono mai stato e non mi ci sento assolutamente. Tanto più che per il modo che ho di lavorare non sono attaccato a nessuna sicurezza. Anzi, faccio proprio dell’insicurezza la mia strada. In ogni film cerco qualcosa. Non è mai una questione dimostrativa. Ogni volta è un’esperienza nuova. Mi lancio, soprattutto per il tipo di ricerca che sto facendo…»

C’è quindi un fil rouge nei suoi lavori?
«Beh, un percorso che sto portando avanti. Poi il filo magari lo rivedrò tra qualche anno. In questo momento mi interessa molto lavorare sulla comunicazione inconsapevole, su ciò che emana da noi dall’errore, nella sporcatura, ciò che di potente esiste nella vita e che noi cogliamo da spettatori quando per esempio vediamo delle interviste dei documentari, dei sevizi al tg. Cioè, l’umanità che si manifesta senza la consapevolezza di ciò che sta facendo. Cerco di lavorare sull’inconsapevolezza e di arrivare a ogni film in maniera più nuda possibile, senza sapere quale sarà il risultato di quello che andrò a fare, cercando di vivere quella situazione come se stesse accadendo a me. Con questa dinamica non posso avere nessuna certezza del risultato. Devo mettere in conto, come nella vita, che non si è mai preparati a quello che accadrà. E di conseguenza mi impressiona molto considerarmi un attore. Oggi eravamo qui a fare le foto. Mi sembra sempre una cosa assurda il fatto che si diventi una sorta di prodotto che va venduto»

Pensa di essere “venduto” come l’attore engagé?
«In realtà, rivedendo la mia carriera questa considerazione è sbagliata: ho fatto di tutto. Poi, ovviamente, potendo scegliere…»

Ci sono ruoli o lavori che non puoi scegliere, che non sono adatti a te?
«Ho sempre fatto qualsiasi cosa. Dalle pubblicità alle fiction televisive anche più becere. Poi ovviamente andando avanti e mi sono state offerte opportunità migliori. Quindi perché accettare le peggiori?»

I registi, dopo un po’, tendono a inquadrarla e sceglierla solo per certi personaggi…
«Ho scelto questo mestiere proprio per l’imprevedibilità, il fatto di non avere sempre i medesimi colleghi e di non essere sempre la stessa persona. Lanciarsi in mondi diversi, mettersi nei panni di qualcun altro, cambiare radicalmente la tua vita forse è una codardia, una fuga dalla vita, ma si trova adatta al mio essere. Quando mi capita che anche in questo lavoro mi incasellino, cerco di distruggere la definizione anche lì. Se sento che mi stanno facendo fare sempre la stessa cosa, cerco ruoli completamente diversi»

Ritornando al suo talento…
«Comunque questo non lo sento»

Beh, leggerà le critiche
«Sì, sì… sono anche cose che durano un momento… poi fai un film che va male…»

E subito ti smontano. Noi giornalisti siamo cinici…
«Ma no, è normale che sia così»

Comunque, mi chiedevo se c’è qualcosa in cui invece si sente una schiappa totale?
«Spesso. Ho molte difficoltà quando mi rivedo. Sul set proprio non posso rivedermi sul monitor o ascoltare la mia voce in alcun modo. Quando il film esce lo vedo massimo una o due volte. Ho molte difficoltà a guardarmi proprio perché mi mette in una posizione di non lasciarmi andare e di tenermi sotto controllo. Di essere fuori da me invece che dentro. Poi, in realtà, il mestiere dell’attore al cinema è molto equivocato. Nel senso che la performance dell’attore è anche costruita dal montatore e dal regista. Noi siamo delle cose lì. Vengono scelte delle cose che facciamo per essere cucinate per il piatto finale. Non è l’attore che controlla la sua performance. Quindi, io mi metto a disposizione, cerco di essere quel personaggio e il risultato sarà una cosa che non riguarda me. Per cui anche il rivedersi ha poco senso»

I nostri lettori la conoscono fondamentalmente come attore cinematografico, ma vorrei approfondire il suo percorso teatrale, una relazione tra alti e bassi, tira e molla…
«Ho iniziato una scuola di teatro quando ero molto giovane, a 14 anni. Ho fatto tre anni di scuola e non l’ho fatta con il sogno di fare l’attore da grande, ma come una pratica che mi sono trovato a fare quasi per caso, una specie di sport. Poi dopo il primo anno è stato una specie di shock, qualcosa che mi ha preso fortemente a cui dedicavo tutto il mio tempo libero. Tanto che ho cominciato ad andare male a scuola perché nel frattempo facevo il liceo. Poi abbiamo cominciato a mettere in piedi degli spettacoli con la compagnia della scuola. Quindi cominciavo a dormire sempre meno e ad andare sempre meno a scuola e poi la questione lavorativa è venuta per caso. Ho cominciato con alcuni attori a fare piccoli spettacoli a Roma in vari teatrini. E poi ho fatto un provino nel 98 per il mio primo film. Facevo ancora il quinto liceo ed è stato allora che ho cominciato a pensare che avrei potuto farlo per mestiere»

Ed è stato anche il momento in cui ha accantonato il teatro…
«Il teatro l’ho accantonato da subito. Da quando ho cominciato a fare il primo film al cinema ho capito che era la strada per me. Il teatro mi spaventava per la ripetitività… partecipare a una turné sempre con lo stesso personaggio per la mia paura di incastrarmi nelle cose. De teatro mi ha sempre spaventato l’alienazione della ripetizione tutte le sere. Ho fatto sempre spettacoli piccoli e mai turnée lunghe. La prima volta è stata due o tre anni fa quando con un monologo mi sono fatto 130 repliche con uno spettacolo e una 60ina con l’altro»

Ha anche curato la regia di alcuni tuoi spettacoli…
«Sì, mi interessa per il lavoro sull’attore, amando molto il mio mestiere. Non sarei in grado di fare regie di altro se non di attori»

Pensa di cimentarsi anche con la sceneggiatura in futuro?
«Assolutamente no. Non mi reputo uno scrittore»

Ha detto che non vorrebbe incastrarsi in un percorso. Quindi il lavoro dell’attore è temporaneo?
«Fare l’attore ti permette di essere tutto. Una volta il pompiere, un’altra l’elettricista, una volta il muratore, una volta l’assassino, una volta Napoleone. In questo senso è il mestiere perfetto per chi c’ha questa sindrome dell’inadeguatezza totale»

Salvatores, Scola, Placido, Virzì. In Italia ha lavorato con i migliori registi. Ha voglia di sperimentare maggiormente altre piazze all’estero?
«In realtà non è che sia esterofilo. Le esperienze che ho avuto con il cinema americano mi hanno sempre un po’ spiazzato e allontanato. Siamo stati allevati con la mitologia degli Stati Uniti in tutti gli ambiti, compreso il cinema. Apprezzo molto di più il cinema europeo. Non come risultato, ma come ambiente di lavoro»

Qual è la differenza per chi ci è dentro come lei?
«Quella americana è un’industria del cinema, dove la gente non si parla e dove l’unica finalità è il business e tutto è studiato in quest’ottica. Mentre il cinema europeo, soprattutto quello più indipendente è più finalizzato a una ricerca, a una sperimentazione, a un rapporto umano, all’idea bella di fare un lavoro di gruppo. E il cinema di bello ha questo, no? Che è un lavoro collettivo. E sono rimasti pochi i lavori in cui non ci sia un senso piramidale, dove c’è qualcuno che si senta il padrone degli “operai”. Il cinema pur funzionando così ha un forte senso di collettività, che è molto bello mantenere. Dove c’è scambio, rapporti umani. L’incertezza è fondamentale nell’arte»

Ai colloqui spesso fanno una domanda. Gliela giro: dove si vede tra dieci anni?
«Spero… Aspe’, non mi faccia dire cose tragiche e drammatiche tipiche del mio stile… Non lo so. Non ho obiettivi. Spero di stare bene e di non essere solo al mondo. Questo mi interessa, poi sinceramente tutto il resto…»

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