Ready Player One, l’odissea nello spazio virtuale di Steven Spielberg. La recensione senza spoiler

Tratto dal bestseller di Ernest Cline, il film racconta lo scontro tra due ragazzi e una spietata corporation per il controllo di un gioco chiamato OASIS. Ma è soprattutto un gigantesco omaggio alla cultura pop anni '70 e '80

Ready Player One

L’immaginario fantastico di Spielberg, negli anni in cui si è consolidato, cioè tra la fine degli anni ’70 e poi per tutti gli anni ’80, è legato soprattutto a storie di padri assenti o disfuzionali, orfani e genitori putativi (Incontri ravvicinati del terzo Tipo, E.T., L’impero del sole, Indiana Jones e l’Ultima Crociata…), per una questione autobiografica che chi ha visto il recente documentario HBO su di lui conosce bene. Il punto di forza è quello di un coming of age in cui il punto di vista del personaggio e quello del cinema trovano una corrispondenza emozionante, che solitamente si rappresenta con la ormai famosa Spielberg Face, quell’espressione di stupore felice o smarrimento con cui osserviamo i protagonisti mentre osservano qualcosa.

Il luogo e l’oggetto di questo stupore sono stati partecipi negli anni anche del progresso tecnologico, al punto che Jurassic Park può essere considerato una meravigliosa coincidenza: l’emozione dei personaggi del film di fronte alla rinascita dei dinosauri nel parco del miliardario John Hammond è infatti un’eco di quella degli spettatori (ma anche di Spielberg e dei suoi collaboratori: ancora una volta il documentario HBO è prezioso) di fronte all’alba dell’era digitale, quella in cui è possibile vedere “tutto”.
Naturalmente zio Stevie nel frattempo è invecchiato, e questo ha aggiunto via via una sfumatura ulteriore, per esempio una purezza infantile e giocosa dello sguardo che contratta con la coscienza politica e il rigore della maturità.

Nel 2018, dopo uno straordinario film di impegno civile come The Post, l’esito di questa sensibilità e di questo percorso è la riduzione del romanzo di culto di Ernest Cline Ready Player One, un frullato di cultura pop anni ’70 e ’80 declinato secondo gli umori distopici del contemporaneo, ovvero l’ansia prosofobica dei possibili guasti sociali dovuti all’abuso del virtuale.

La trama: in un mondo in cui la polarizzazione in classi è sempre più accentuata, la gran parte della popolazione occidentale vive ormai in condizioni di estrema povertà, dalla quale si estrania indossando i caschi per la VR e trasferendosi in un mondo-game fittizio chiamato OASIS. Alla morte del suo creatore, James Halliday, si apre una partita senza confini per trovare tre chiavi e un Easter Egg (in sostanza un premio nascosto) che garantisce al vincitore il possesso del gioco e quindi un potere e una ricchezza smisurati. A provarci sono squadriglie di gamer indipendenti, tra cui quella dei protagonisti (naturalmente orfani) Parzival e Art3mis, e una mega corporation guidata da un ex-collaboratore senza scrupoli di Halliday. La lotta sarà sia virtuale che materiale, e senza esclusione di colpi.

Rispetto al libro, la sceneggiatura di Zak Penn e dello stesso Cline semplifica lo svolgimento della gara in tre prove secche ma mantiene integro lo spirito e la progressione del romanzo, e anzi le prime due (che non vi spoileriamo, sarebbe criminale…) permettono a Spielberg i pezzi di regia migliori del film: il secondo ti lascia letteralmente stordito per come sventra la superficie della cinefilia ben educata con le dinamiche del videogame di massa, ma è il primo a rappresentare un momento di coordinazione tra cinema e gaming così esatto da sembrare una rivelazione (e tutti gli Assassin’s Creed e i Tomb Raider di questo mondo possono solo restare a guardare a bocca aperta).

Dove invece il film perde qualche punto è nel tentativo di appoggiare un sottotesto alla confezione spettacolare: il richiamo finale alla realtà, ovvero a una coscienza civile, è didascalico e anche un po’ pomposo, e una vera posizione critica nei confronti della cultura nerd – nonostante le apparenze – non viene assunta, la sensazione è esattamente quella del colpo al cerchio e poi alla botte.
Questo ci riporta alla premessa, cioè a ritrovare l’”avatar” di Spielberg nell’opera, come fosse una sfida dentro la sfida. Dove batte il cuore? Nel creatore di OASIS Halliday? Nella sua replica teenager, attaccata indefinitamente a una vecchia console per non affrontare il mondo e le ragazze? Nel suo braccio destro Ogden Morrow, amico rimpianto e custode della sua eredità? Nei ragazzini che combattono per salvaguardare la cultura popolare con cui cono cresciuti i loro padri (e con cui oggi l’industria si arricchisce)?

Ecco, forse è questo il vero smarrimento, la ragione per cui i 140 minuti del film sono eccitanti, ricchissimi, ma non scorrevoli come avrebbero potuto. Di Ready Player One e del suo mondo senza padri stavolta Spielberg è spettatore, proprio come noi: divertito, appassionato, ma esterno, come se alla fine l’età – e la serenità, anche familiare – l’avessero sorpassato e trasformato semplicemente in un grande regista.

Foto: © Warner Bros. Entertainment Inc.

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