Titane: mutilazioni, incesti e sesso con le automobili nel film shock di Cannes 2021. La recensione

Dopo Raw - Una cruda verità, la regista francese Julia Ducournau firma un altro body horror ancora più estremo, che fa il pieno di omicidi, strazio del corpo e ogni genere di turpitudini fisiche, risultando però vittima della propria stessa bulimia di atrocità

Titane Palma d'oro 2021 Cannes
PANORAMICA
Regia (2.5)
Sceneggiatura (2)
Interpretazioni (2.5)
Fotografia (3.5)
Montaggio (2.5)
Colonna sonora (3.5)

Titane, l’opera seconda di Julia Ducournau in Concorso al Festival di Cannes 2021 dopo il coming of age cannibale di Raw – Una cruda verità, ha per protagonista una donna, Alexia (Agathe Rousselle), che da piccola ha subito un incidente che ha costretto i medici a impiantarle una placca di titanio sul cranio per tenerla in vita. Ora, da adulta, fa la ballerina di lap dance intorno a delle automobili fiammanti, esibendosi e dimenandosi in abiti succinti nelle fiere di settore, ospitate in spogli garage. Una sera si ritrova ad avere un rapporto sessuale con una di loro, prigioniera con delle funi e ai polsi e penetrata dalla leva di cambio, e rimane incinta.

Fin dalle prime battute, Titane potrebbe somigliare a una rilettura contemporanea di Crash, spinta verso territori meno filosofici e più sfacciatamente provocatori ed estremi, oltre che a una versione sotto steroidi (in tutti i sensi) dello stesso Raw. Molto più del precedente film della Ducournau, infatti, Titane è un body horror che spinge a mille sul pedale dell’acceleratore dello shock a tutti i costi, mettendo in scena un tour de force molto articolato di mutilazioni autolesioniste, denigrazioni fisiche così fastidiose da dover distogliere lo sguardo dallo schermo, martirii di varia natura, uso operistico del gore, scene di sesso lesbico nelle quali è ad esempio difficile per chi guarda stabilire il confine tra inumidire voracemente un capezzolo e morderlo. 

Alla Ducournau interessa sopra ogni altra cosa lo strazio del corpo ed è evidente come Titane, pur nell’approssimazione un po’ posticcia con la quale galleggia a bello d’acqua sulla sua superficie malsana e opaca, oltre al cinema di David Cronenberg debba moltissimo anche a Shin’ya Tsukamoto e, più sottobanco, anche a Claire Denis: certi interni sembrano quelli del suo recente High Life e le scene di ballo, tutte bellissime, sono un misto di disincanto e tenerezza e si muovono sulla falsariga di quelle del cinema della regista francese, dove veder ballare gli esseri umani è, per la macchina da presa, un atto insieme di pietà, vigore malinconico e dolce compassione. 

I momenti in cui i corpi si dimenano danzanti sono anche quelli, insieme alle moltissime uccisioni commesse da una protagonista rabbuiata e solitaria, il cui Titane respira di più e si lascia alle spalle la sua ingombrante e (davvero) titanica vena di compiaciuta stranezza. In favore, ad esempio, di un assassinio efferato portato a termine con uno sgabello sulle note di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli o di un utilizzo spettrale di Light House dei Future Islands.

Il resto è invece purtroppo quasi sempre vittima di assiomi di disperazione abbondantemente stucchevoli, che cercano ostinatamente l’orrore ma finiscono troppo spesso col guardarsi allo specchio, cercando il sostegno di continue e indefesse iniezioni di adrenalina, di altrettanto potenti orgasmi omicidiari e perfino di una svolta trascendentale che arriva nel finale, totalmente ingiustificata e messa lì solo a suggerire con furbizia una lettura pseudo-satanica del tutto.

Va comunque apprezzato il pensiero filmico, lo sforzo e l’azzardo della visione, il coraggio senza compromessi. In primis della protagonista ma anche di Vincent Lindon, interprete del padre della ragazza e sempre credibile, nonostante quest’uomo sia sostanzialmente un sarcofago svuotato tenuto in vita da un’ossessione auto-prodotta relativa alla figlia, che nel frattempo continua a secernere olio motore dalla vagina. Il suo personaggio è un anziano pompiere depresso, che non sfonda mai il muro della caricatura (anche quando canta la Macarena durante una respirazione bocca a bocca), maneggia le sue terga come fossero un campo di battaglia e si fa carico di un legame che porta il film alle soglie dell’incesto e della riappropriazione gender fluid di un’identità maciullata.

Foto: Carole Bethuel; Kazak Productions, Frakas Productions, Arte France Cinéma, VOO, BeTV

© RIPRODUZIONE RISERVATA