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Venezia 75: la parte del Leone. Il nostro commento all’incredibile programma della Mostra 2018

Perché la prossima edizione della Mostra del cinema si preannuncia semplicemente straordinaria. E sul perché Venezia ha definitivamente sorpassato a destra Cannes, sancendo il suo primato nel panorama dei grandi festival internazionali

Venezia 75: la parte del Leone. Il nostro commento all’incredibile programma della Mostra 2018

Perché la prossima edizione della Mostra del cinema si preannuncia semplicemente straordinaria. E sul perché Venezia ha definitivamente sorpassato a destra Cannes, sancendo il suo primato nel panorama dei grandi festival internazionali

festival di venezia

Se si rimane abbastanza sbalorditi e ammirati al cospetto della ricchezza e della varietà del programma messo insieme quest’anno dal direttore della Mostra di Venezia Alberto Barbera e dalla squadra (tutti i titoli li trovate qui, ma ve li racconteremo nel dettaglio in edicola su Best Movie di settembre), è in gran parte merito del lavoro fatto negli ultimi anni, nei quali si è inseguito con ardore un perfetto equilibro tra divulgazione e ricerca, tra raffinatezza dei linguaggi e lo spaccato – necessariamente contraddittorio e dunque sempre stimolante – del cinema industriale e commerciale di oggi.

Lo dice a chiare lettere Barbera stesso, nelle sue note diffuse nella cartelletta consegnataci stamattina in conferenza stmpa a Roma: mappare il presente è impossibile, perché il tempo che viviamo non scorre, non si mette in fila, ma gli eventi si affastellano in un mare caotico che è impossibile arginare. La parola d’ordine, allora, può essere solo una: inclusione, e mai esclusione. Apertura mentale, senza paraocchi. Smettere di credere che esista un prima e un dopo, sintetizza Barbera, è la chiave di volta per capire il cinema di oggi abbracciando tutte le sue molteplici traiettorie, quelle più immediate e quelle più ricercate, il pop e l’elitario, il già noto che si fa canone e l’innovativo che spazia, sfugge, svicola e si nega.

Un’edizione più ricca di così, più strabiliante sulla carta di quanto portato a casa, è davvero difficile immaginarla. E bisogna dirlo a chiare lettere: il prestigio e l’autorevolezza di Venezia, che quest’anno corona i suoi sforzi soprattutto nell’intercettare il mercato americano, hanno definitivamente messo la freccia e sorpassato in scioltezza Cannes, troppo chiusa nella propria torre d’avorio, in rivendicazioni orgogliose e settarie, dove sembra che interessi di più chiudere le porte a Netflix e bandire i selfie dal red carpet che mettere in un discussione un’idea di cinema stravecchia che invece, oggi più che mai, non dovrebbe conoscere steccati.

Quest’anno, come dice Barbera, ci saranno molti film di genere che però sono film d’autore, perché gli autori – quelli veri, quelli intelligenti – hanno capito che per recuperare quel contatto allentato col pubblico bisogna ripartire da codici condivisi. Ecco così configurarsi un Concorso e un Fuori concorso mai così generosi e fuori formato, con film spesso lunghissimi, quasi sempre sopra le due ore, mediamente intorno alle due ore e mezza e spesso addirittura alle soglie delle tre. Arroganza? Spocchia? Pare proprio di no, semmai una rivendicazione di coraggio e libertà, che ci si può permettere proprio per la volontà ostinata e selvaggia di conciliare vena radicale e gusto popolare.

Oltre ai già annunciati, Il primo uomo e A Star is Born, i film più attesi del Concorso sono senz’altro quelli di Olivier Assayas (Doubles Vies, descritto come la summa sulla ridefinizione del mondo da parte del digitale, da un autore che negli ultimi tempi ha fatto di questo tema il suo perno), Jacques Audiard (The Brothers Sisters, western con Jake Gyllenhaal e Joaquin Phoenix), Roma di Alfonso Cuarón, ovviamente il Suspiria di Guadagnino, con una Tilda Swinton irriconoscibile in un triplo ruolo.

E poi i vari autori canonizzati, che puntellano tante possibili scoperte: Mike Leigh (Peterloo), Yorgos Lanthimos (The Favourite), i nostri Mario Martone e Roberto Minervini (Capri-RevolutionWhat You Gonna Do When the World’s on Fire?), l’attesa opera seconda di Laszlo Nemes, Sunset, la nuova provocazione autobiografica del messicano Carlos Reygadas (Nuestro Tiempo), At Eternity’s Gate di Julian Schnabel con Willem Dafoe nei panni di Van Gogh, senza contare il nuovo film di samurai in costume del grandissimo cineasta giapponese Shin’ya Tsukamoto, Zan, che voci di corridoio descrivono come un colpo di fulmine della squadra di selezionatori.

Il Fuori Concorso, come accennavamo, non è da meno: tra i fiori all’occhiello spiccano senz’altro il film ritrovato di Orson Welles dopo quarant’anni, The Other Side of the Wind, le prime due puntate de L’amica geniale di Saverio Costanzo da Elena Ferrante, Les Estivants di Valeria Bruni Tedeschi, la nuova fluviale follia crime di S. Craig Zahler dopo Cell Block 99, Dragged Across Concrete, che ritrova Vince Vaughn e gli affianca Mel Gibson.

Per non parlare del ricchissimo cartellone Non-Fiction dedicato ai documentari, che offre semplicemente il meglio del genere su scala mondiale, ribadendo il primato ormai sconfinato di Venezia e abbracciando Errol Morris in un dialogo tutto da scoprire con Steve Bannon, l’ideologo di Trump, in American Dharma, e Frederick Wiseman nella pancia dell’America profonda in Monrovia, Indiana (stato americano a dir poco archetipico, patria di John Dillinger e David Letterman).

In Orizzonti c’è il film di Alessio Cremonini sul caso Cucchi, Sulla mia pelle, con una prova di Alessandro Borghi che Barbera definisce già come di grandissimo impatto. Nella sezione Sconfini, ex Cinema del Giardino, l’extended cut da tre ore edito dalla Criterion, in anteprima cinematografica mondiale, di The Tree of Life di Terrence Malick, e si potrebbe continuare fino a domani.

Un titolo per tutti, però, ci preme segnalare in chiusura per sintetizzare la vitale sregolatezza della Mostra di quest’anno: quel The Ballad of Buster Scruggs, miniserie in sei puntate per Netflix dei fratelli Coen, messo lì in Concorso senza colpo ferire, infischiandosene delle guerre preventive coi nuovi media e formati, dell’utopia malsana di voler remare contro lo stato delle cose con ridicolaggine donchisciottesca. Venezia, dal canto suo, preferisce abbracciare semplicemente il meglio, e fare con umiltà la parte del Leone, senza caricarsi sulle spalle responsabilità insostenibili. Il ruggito che ne consegue, in attesa di valutare sul campo la qualità dei film, è da far tremare i polsi.

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