Armageddon Time – Il tempo dell’Apocalisse: l’America ieri del chiaroscurale e sfortunato coming of age di James Gray. La recensione

Dopo l’avventura nello spazio dagli echi filosofici di Ad Astra, James Gray è tornato alle origini, nella sua New York, per il racconto autobiografico dell’adolescenza di un ragazzino di buona famiglia, alle prese con le contraddizioni della crescita e l’amicizia con un coetaneo afroamericano. Sullo sfondo la perdita dell’innocenza dell’America reaganiana degli anni ’80 e i suoi chiaroscuri di ieri e di oggi

Armageddon Time
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James Gray si è imposto, tra la seconda metà degli anni ’90 e l’inizio del XX secolo, come una delle voci più interessanti del cinema americano della sua generazione. Il suo esordio noir sulla mafia russa a Brooklyn, Little Odessa, portò molti a salutarlo come il nuovo wonder boy di turno e addirittura come l’erede di Martin Scorsese, e tutti i suoi film successivi sono abitati da un cupo senso di fatalismo metropolitano ed esistenziale: dal malavitoso I padroni della notte al melò forse più spiazzante del cinema a stelle e strisce del nuovo millennio, Two Lovers, fino ai più recenti e crepuscolari C’era una volta a New York e Civiltà perduta e alla fantascienza intimista di Ad Astra, il suo penultimo film. 

Stupisce dunque fino a un certo punto che la sua nuova fatica, Armageddon Time – Il tempo dell’Apocalisse, nelle sale italiane dal 23 marzo con Universal Pictures dopo il passaggio in Concorso al Festival di Cannes 2022, sia come suggerisce il titolo un racconto autobiografico molto chiaroscurale e disilluso, indubbiamente poetico ma a dir poco atipico nel suo genere e perfino disperato. 

Siamo nella New York degli anni ’80 e il protagonista è Paul Graff (Michael Banks Repeta), adolescente che, proprio come Gray, cresce nel distretto del Queens, da una famiglia di origina ebrea ucraina, alle prese con rapporti che sono una polveriera di rancori e fallimenti, piccole e grandi meschinità, incomunicabilità fatali. L’amicizia con Johnny (Jaylin Webb), coetaneo afroamericano, verrà messa a dura prova dall’ottusità dei pregiudizi razziali e a fargli da conforto e sostegno,  come contrappeso all’intransigenza piuttosto monolitica dei genitori, interpretati da Jeremy Strong e Anne Hathaway, sembra esserci soltanto l’affettuoso nonno Aaron (Anthony Hopkins).

Armageddon Time è un coming of age in cui il protagonista cerca di capire chi è crescendo in unAmerica sulla quale incombe la presidenza Reagan e dove diventare grandi appare dannatamente complicato. Siamo in una curiosa fase della storia del cinema in cui tanti grandi autori fanno gli amarcord della loro infanzia o adolescenza, come Cuaròn, Sorrentino, Spielberg, Paul Thomas Anderson. Nessuno tra questi mostra però lintimità familiare con lombrosità, la cupezza e il senso di perdita di Armageddon Time, nel quale non si nascondono nemmeno le brutture dei personaggi e lei stesso non idealizza i suoi cari: anche le ambizioni scolastiche di sua mamma vengono mostrate per quello che sono, un sogno piccolo-borghese un poottuso. 

In una delle scene più potenti, un dialogo in automobile avvolto in un’oscurità quasi totale che rimanda molto ai suoi film precedenti, il padre dice al figlio: «Vorrei che tu fossi migliore di me». Anche in questo caso c’è una sincerità talmente straziante e inusuale da polverizzare l’ottimismo dell’American way of life tipico della maniera con cui le famiglie americane sono raccontate al cinema e in tv. L’idea che Gray ha degli Stati Uniti, a guardare il film, sembra molto tetra, e l’integrazione del suo storicamente paventato “melting pot” sempre più un vano baluardo e un’utopia ferocemente logorata.

Da segnalare, infine, oltre alla forza del ragazzino nero miglior amico del protagonista, Paul, ovvero Johnny, personaggio troppo accurato – per la fermezza e il rifiuto silenzioso e durissimo di ogni autorità e ingiustizia razziale – per essere stato inventato di sana pianta, anche il cameo di Jessica Chastain nei panni di Maryanne Trump, sorella del futuro presidente, che tiene un discorso a scuola nell’epilogo del lungometraggio, spalancando – proprio in chiusura, non a caso – l’ovvio ma comunque non per questo non rimarcabile parallelismo tra gli USA di ieri di Ronald Reagan e quelli dell’altro ieri di Donald Trump. 

Foto: MadRiver Features, Keep Your Head Productions, RT Features; Universal Pictures

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