Cannes 2021: le recensioni in breve di tutti i film del Concorso. Terza parte

Dal ritratto della malattia mentale proposto da Les Intranquilles di Joachim Lafosse al nuovo lavoro del tailandese Apichatpong Weerasethakul, che dirige Tilda Swinton in Memoria. E poi i nuovi film di Jacques Audiard, Bruno Dumont e Sean Baker

Le recensioni, in poche righe, di tutti i film del concorso principale di Cannes 2021. Il titolo riportato è quello del paese d’origine, con cui il film viene presentato ufficialmente al festival e nei suoi programmi. Il voto tra parentesi è su una scala da 1 a 5, compresi i mezzi voti.

QUI la seconda parte delle Recensioni in breve 

QUI la prima parte delle Recensioni in breve 

Les Olympiades di Jacques Audiard

Il titolo fa riferimento a un quartiere del XIII arrondissement di Parigi, fotografato in un bianco e nero che conferisce ai grattacieli un aspetto retrofuturistico e ai giovani protagonisti un allure da nouvelle vague. Cercando di evitare il luogo comune per cui la fotografia in bianco e nero è sempre, quasi per definizione, elegante, non c’è dubbio che la regia di Audiard ne faccia buon uso per valorizzare al meglio questo quadrangolo amoroso, che coinvolge una promoter telefonica, un insegnante di lettere, una studentessa vittima di bullismo e una cam girl. Film di superficie, tutto estetica, dove però le superfici spalancano abissi sentimentali. Romantico, senza drammi, pieno di fiducia nel futuro. (***1/2)

Memoria di Apichatpong Weerasethakul

Il cinema fantastico di questo autore tailandese continua ad assomigliare all’impossibilità di un risveglio, come quando ci si trova sospesi in un sogno lucido, senza sapere come uscirne. In Memoria ad essere incastrata in questa dimensione incerta è una botanica (interpretata da Tilda Swinton) specializzata in malattie delle piante, che va a trovare a Bogotà la sorella malata. Qui viene tormentata da un rumore violento, simile a un’esplosione, di cui non riesce a riconoscere l’origine. Ma è l’intera realtà intorno a lei che pare slabbrarsi pian piano, mentre persone e cose scompaiono senza lasciare traccia. Cinema come evocazione di altri mondi, oltre il realismo magico, nel mistero. (****)

The Story of My Wife di Ildiko Enyedi

Dalla regista Orso d’Oro nel 2017 per Corpo e anima, il punto più basso del concorso, un polpettone di quasi tre ore tratto da un romanzo del 1942 dell’autore ungherese Milán Füst e recitato in un inglese illogico e farlocco. Un capitano di navi di lungo corso decide di sposare una ragazza francese conosciuta in un caffè di Minorca, perché il cuoco di bordo gli ha suggerito che una moglie è un buon modo per guarire dal mal di mare. Non sorprendentemente, non funziona. Seguono anni di amore e disprezzo, tradimenti e riavvicinamenti, senza che i due trovino un’intesa stabile ma senza neppure che il loro idillio si spezzi. Un tedioso period drama matrimoniale in sette capitoli, tutto in terza persona (quella del capitano) e in gran parte in interni, che potrebbe forse funzionare come visione parcellizzata, su Netflix o altrove. (*1/2)

Red Rocket di Sean Baker

Dopo la Los Angeles di Tangerine e la Orlando di The Florida Project, Sean Baker continua con i suoi coloratissimi controcampi sulle periferie povere delle grandi città americane. Lo fa in questo caso raccontando i confini industriali di Texas City e la vita di Simon Rex, una pornostar caduta in disgrazia che lascia Los Angeles e torna a casa di moglie (e suocera) in cerca di un letto e di un modo per rimettere in sesto la sua vita. Finché un giorno non fa la conoscenza di una cameriera diciassettenne e decide che la trasformerà nella nuova stella del cinema a luci rosse americano. Baker, che ama i personaggi perdenti ma resilienti, qui rilancia con un uomo abituato a manipolare chiunque (metaforicamente e letteralmente) per il proprio tornaconto, sfidando i limiti dell’empatia dello spettatore. Ma la scrittura è formidabile e non cedere al fascino vanaglorioso di Simon Rex è dura. Insieme a quello dei Safdie Bros, quello di Baker è probabilmente il miglior cinema indie americano degli ultimi anni. (***1/2)

Haute et Fort di Nabil Ayouch

Il film più semplice e diretto del concorso, una specie di remake dell’Attimo fuggente ambientato in Marocco, in un quartiere povero di Casablanca. In questo caso il neo-professore insegna hip-hop a un gruppo di ragazzi che frequenta una scuola gratuita di arti performative. Tutto il film è girato con camera a mano, in uno stile da cinema-reportage che ricorda film come La classe di Laurent Cantet o La schivata di Abdellatif Kechiche. Il montaggio lavora di sottrazione per contenere la durata e la retorica non supera mai il livello di guardia come accadrebbe in un film americano dello stesso genere. Un’opera piccola e giusta, sicuramente derivativa, ma che in una società musulmana come quella da cui nasce e a cui si rivolge, conserva una limpida carica rivoluzionaria. (**1/2)

France di Bruno Dumont

Dumont continua nella sua opera di sabotaggio delle iconografie sacre alla cultura francese. Stavolta la sua Giovanna d’Arco si chiama addirittura France ed è una giornalista e presentatrice televisiva famosa come una star del cinema, che vive in una casa-museo assieme al figlio e a un marito che non ama più da tempo. Dopo un piccolo incidente stradale, la donna piomba in una profonda crisi esistenziale e di coscienza, decide di lasciare il lavoro e si ritira in un ricovero per ricchi depressi sulle Dolomiti. Ma anche lì la sua professione sembra inseguirla e riportarla al punto di partenza. Frastornata dai drammi umani a cui assiste continuamente (in un corto circuito assurdo, France è anche una reporter di guerra) eppure incapace di liberarsi dal cinismo a cui il lavoro l’ha educata, France si blocca, come il film, in un’impasse apparentemente senza uscita. Un’impasse in cui le immagini, sempre più trasparenti, sempre più svuotate di senso, sono la testimonianza una civiltà ormai abituata a tutto e quindi incapace di “sentirle”. Un film intelligente ma sfiancante. (***)

Nitram di Justin Kurzel

Studio di carattere su una personalità disturbata, quella del giovane Nitram, responsabile del massacro di Port Arthur, in Tasmania, nella primavera del 1996. Una sparatoria che costò la vita a 35 persone e portò al ferimento di altre 23, spingendo il governo australiano a una revisione delle leggi sul possesso delle armi da fuoco. Kurzel, che l’ultima volta era stato in concorso a Cannes con la sua allucinata versione del Macbeth (protagonista Micheal Fassbender), torna a mettere in scena una terribile pagina di cronaca del suo paese come gli era accaduto con il folgorante esordio The Snowtown Murders. Una storia carica di una violenza repressa, sempre sul punto di esplodere, che purtroppo aggiunge poco sia al suo percorso registico che al concorso di Cannes: al di là della denuncia politica e della coerente scelta di tenere la violenza fuori campo – peraltro l’esatto contrario di quanto fatto finora nel suo cinema – siamo di fronte a un film sgonfio e convenzionale, di interesse pressoché nullo. (*)

Les Intranquilles di Joachim Lafosse

I “non tranquilli” del titolo, o per meglio dire i “senza tregua”, sono i familiari – padre, compagna e figlio – di un uomo affetto da un serio disturbo bipolare della personalità. Lafosse, che è uno specialista in coppie disastrate – basti pensare ad À perdre la raison e Dopo l’amore – fornisce a Damien Bonnard, che già di suo è un attore straordinario, un ruolo memorabile, in un film che è un vero e proprio assalto emotivo e che spoglia la patologia di qualunque fascino romanzesco. La messa in scena segue frenetica il suo protagonista, mentre la scrittura sceglie di dare al dramma un andamento da thriller, come se la famiglia al centro della storia si ritrovasse in casa un potenziale omicida. Un ottimo film, ma lontano dai migliori del concorso. (***)

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