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Looper: la recensione di Gabriele Ferrari

Looper: la recensione di Gabriele Ferrari

«Non voglio neanche cominciare a parlare del viaggio nel tempo, quella roba ti frigge il cervello». Parole di Joe, rivolte a Joe, durante un dialogo che assomiglia a un monologo e si conclude con una sparatoria durante la quale Joe fugge alle grinfie di Joe e riesce a mettersi in salvo. Siamo all’inizio del secondo atto di Looper, sottopelle la sensazione di essere di fronte a qualcosa di memorabile, sul volto l’espressione di chi sta per seguire il consiglio di Joe: staccare il cervello, abbandonarsi alla corrente, farsi trascinare.

Qualcuno l’ha proclamato «il nuovo Matrix». Altri hanno salutato il ritorno della grande fantascienza di stampo dickiano. I più attenti sorridono sornioni: Rian Johnson, due film alle spalle, aveva già dimostrato il suo talento e il suo penchant per la rilettura del noir classico con Brick, e il suo terzo lavoro è solo una conferma della classe del regista. Quasi tutti, comunque, concordano: Looper è un evento quasi unico nel panorama sci-fi attuale, una storia originale scritta con perizia (e furbizia) ed eseguita con la maestria e l’inventiva proprie dei grandi. È un film che si diverte a sovvertire le aspettative, Looper: sembra nascere come hard sci-fi a base di viaggi nel tempo e paradossi – lo sceneggiatore è lo stesso dello sconosciuto e intricatissimo Primer – per poi accantonare lo spunto e tramutarsi in distopia grigissima e macchiata di esistenzialismo, che a sua volta scivola con naturalezza nei silenzi e nelle tensioni di un western. È complesso, intricato e a tratti labirintico, eppure non si crogiola mai tra paradossi e incastri narrativi, né perde di vista la storia che vuole raccontare. È un capolavoro? Opinabile, ma di sicuro ci si avvicina molto, ed è soprattutto, se lo si guarda in controluce sullo sfondo di quello che è oggi la sci-fi, un film importante.

Le regole del gioco le spiega il protagonista Joe (Joseph Gordon-Levitt) nei primi minuti del film, con un voiceover che – sovrapposto com’è a un montaggio che mostra sconfinati e cupissimi distretti industriali e discoteche illuminate da lividi neon – riporta all’istante alle atmosfere noir del Blade Runner di Ridley Scott. Il viaggio nel tempo, scopriamo, esiste: ed è una tecnologia elementare e poco costosa; chiunque, in ossequio alle distopie futuribili di Philip Dick e William Gibson, può andare a spasso nel passato: niente macchinari hi-tech, tutto quel che serve è un ammasso ordinato di lamiere che assomiglia pericolosamente a una di quelle lavatrici che si tengono in cantina per fare il bucato. Fin troppo semplice, e infatti illegale; solo la mafia del futuro (il futuro del futuro, ovvero trent’anni dopo quel 2044 durante il quale si svolge il film) lo controlla, e con esso controlla tutti coloro che sgarrano: chi sbaglia viene rispedito a calci nel passato, dove un killer prezzolato gli fa saltare le cervella e ne fa sparire il corpo. Gli “spazzini” si chiamano looper, e Joe è uno di loro; vizioso e amante di lusso e belle donne (tra cui una splendida Piper Perabo), rampollo prediletto del boss Abe (Jeff Daniels, magnifico), la sua vita fatta di droghe e sesso finisce sottosopra quando quello che sembra l’ennesimo lavoro di routine si rivela essere… Joe (Bruce Willis). Un Joe diverso, naturalmente, più vecchio, più disilluso, schiacciato dal peso di quella che è stata la sua esistenza negli ultimi trent’anni, ovvero dal momento in cui si è ritrovato di fronte il se stesso vecchio per ucciderlo e…

… e Looper è un mezzo capolavoro per questo motivo: perché spiegarne per iscritto gli sviluppi e le implicazioni è un lavoro improbo, eppure a guardarlo, a farsi trascinare dai ritmi imposti da Johnson, non ce ne si accorge nemmeno. È una continua scoperta che si alimenta a colpi di scena ma non cessa nemmeno per un istante di essere la storia di due uomini che sono lo stesso uomo e sono costretti a confrontarsi con gli errori della vecchiaia e le intransigenze della gioventù. Gioca con la carriera dei suoi protagonisti (ci sono almeno due sequenze in cui Bruce Willis fa l’Hallenbeck di L’ultimo boyscout o il McClane di Die Hard, insomma fa il Bruce Willis) e con i linguaggi del cinema, scivolando con allegra anarchia e senza soluzione di continuità dall’action al dramma da camera: secondo e terzo atto sono quasi interamente ambientati nella fattoria di Sara (Emily Blunt), eppure è qui che ha luogo la scena più pazzesca del film, dimostrazione di come anche la slo-mo possa essere usata con gusto, classe e (perché no) genio. È, insomma, un film che mette in difficoltà chi ne deve scrivere molto più di quanto faccia con lo spettatore. Ed è una ventata d’aria fresca: né romanzo adattato per il grande schermo, né graphic novel trasformata in script, né remake, reboot, origin story o prequel. Solo (solo?) una sceneggiatura solida – pur con i suoi bei buchi logici, e un finale sempliciotto ai limiti estremi dell’anticlimax –, due interpreti eccezionali, un cast di supporto in stato di grazia, una regia finalmente personale: l’ultimo progetto sci-fi di questo profilo creato apposta per il cinema è Moon di Duncan Jones, datato 2009, e quattro anni d’attesa sono decisamente troppi. Speriamo di non dover aspettare altrettanto per qualcosa che stia a livello di Looper.

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Mi piace
La regia di Rian Johnson, che cattura fin dal primo fotogramma e fa dimenticare anche qualche singhiozzo di sceneggiatura. Le interpretazioni di Bruce Willis e di Joseph Gordon-Levitt (che gioca a fare Bruce Willis) strappano applausi. La scelta di non giocare con paradossi e rompicapo ma di concentrarsi sulla storia è vincente.

Non mi piace
Il finale è un po’ affrettato. Il rallentamento della fase centrale del film potrebbe stancare qualcuno.

Consigliato a chi
Ama la fantascienza e vuole un’iniezione di speranza per il futuro del genere. 

Voto: 4/5

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