Aleggiava qualche sospetto sul perché il nuovo lavoro di Audrey Diwan dopo il Leone d’Oro per La scelta di Anne – un film scarno, duro e realista sull’aborto clandestino – non fosse stato selezionato a Venezia e fosse invece finito a San Sebastian, dove è stato proiettato come film d’apertura. Ed effettivamente Emmanuelle è destinato a dividere… per usare un eufemismo.
Questa nuova versione del romanzo di Emmanuelle Arsan, portato per la prima volta sullo schermo nel 1974 (in un film più casto di quanto oggi si rammenti), è incentrata su una donna (Noémie Merlant) che si occupa del controllo qualità per una catena di alberghi di lusso, che vola a Hong Kong per valutare il lavoro della direttrice (Naomi Watts) dell’hotel locale. Diwan (anche sceneggiatrice con Rebecca Zlotowski) esplora la sua solitudine, la sua mancanza di entusiasmo, il suo senso del dovere, provando a rappresentarle attraverso le sue avventure sessuali e le conversazioni che intrattiene con un misterioso avventore dell’albergo, l’unico che sembra in grado di resisterle.
La cosa più sconcertante, la più grossa “deviazione” di Diwan dal suo film precedente, è nell’approccio stilistico che la regista sceglie assieme al direttore della fotografia Laurent Tanguy, lasciandosi evidentemente trasportare dalla location, in omaggio ai film di Wong Kar-wai, e in particolare In the Mood for Love (da lei citato, nell’intervista che le abbiamo fatto dopo il film, come un riferimento assoluto per il cinema erotico). È un grosso rischio perché quel livello di stilizzazione, costruito come riflesso del carattere di una città, nei film di Wong Kar-wai in pratica è un palliativo della carnalità, non un corredo.
Così, mentre Diwan cerca di evitare la sovraesposizione degli atti sessuali (che anzi sono tagliati velocemente e piuttosto bruscamente), affermando implicitamente che un film erotico – oggi – non può essere pensato ancora come negli anni ‘70, il suo Emmanuelle resta stranamente superficiale, perfino pubblicitario, per l’occhio con cui guarda alla città, ai decori dell’hotel, agli abiti della sua protagonista. Una contraddizione che esplode più nelle scene di dialogo – le chiacchiere sul sesso sono spesso ridicole al cinema, e qui si battono diversi record – che in quelle contemplative, dove a essere messo in scena è lo smarrimento della protagonista invece che il suo desiderio, e che in questo contesto impersonale trova una giusta sponda.
Cè una bellissima sequenza, circa a metà film, in cui dalle grandi vetrate di questo albergo di lusso, nel salone ristorante, la ricchissima clientela assiste a un tornado che sembra sul punto di sventrare la città come se lo stesse vedendo al cinema. In quel momento e per pochi minuti il film è centrato: la luce è perfetta, e c’è questa sotterranea tensione tra l’esposizione del cataclisma e la calma aristocratica che regna nel ristorante, che rispecchia in modo semplice e affascinante la natura della protagonista e dei suoi turbamenti. Non è sofisticata la metafora ma è perfetta l’esecuzione.
Quell’equilibrio altrove è molto difficile da ritrovare. Man mano che il film procede, diventa più esplicito e fa l’unica scelta evidentemente “politica” di messa in scena, cioè esporre il corpo di Emmanuelle solo nei momenti di autoerotismo. La sensazione è che l’origine “casuale” del progetto (che è stato proposto a Diwan, non da lei cercato, dopo il Leone d’Oro), non sia stata riscattata, o quanto meno governata, da nessuna ispirazione successiva, cinefila o militante. Il rapporto tra le due donne di potere del film, così come il viaggio della protagonista verso la riscoperta del proprio desiderio, non trova mai uno svolgimento all’altezza delle ambizioni: così il racconto di uno smarrimento, in un non-luogo, si traduce in un non-film, ondivago, impacciato, senza ragioni.
Foto: Pathé Films
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