Viaggio in Paradiso: la recensione di Gabriele Ferrari

«Il rancore ci ucciderà tutti»
«Ma loro moriranno per primi. E allora brindiamo al rancore!»

Già, rancore: ma nei confronti di chi? Di coloro che ne hanno celebrato prematuramente il funerale artistico? Di una Hollywood che l’ha ostracizzato, costringendo Mel Gibson (di lui stiamo parlando) a distribuire, negli States, il suo Viaggio in Paradiso direttamente in versione home video? Di se stesso e delle innegabili follie che ne hanno messo a rischio la carriera? Una cosa è sicura: a guardare un film datato 2012 del fu Mad Max si corre il rischio di esagerare con le interpretazioni e le seconde letture – facendosi sfuggire, magari, quello che altro non è se non un solidissimo action, nostalgico e datato nelle intenzioni ma assolutamente attuale nella confezione.

Come da tradizione, comincia tutto con un inseguimento e un mucchio di soldi: la folgorante sequenza d’apertura – sporca, selvaggia e ironica come tutto quel che seguirà – trascina Gibson (“Driver” stando ai titoli di coda) al di là della frontiera con il Messico, alleggerito di due milioni e mezzo di dollari e della sua libertà. La destinazione forzata è El Pueblito, teoricamente un carcere, in realtà vera e propria città-Stato, gestita con pugno di ferro dai fratelli Javi e Caracas (Daniel Giménez Cacho e Jesús Ochoa, rispettivamente): c’è un mercato all’aria aperta, ci sono farmacie, fruttivendoli, negozi di vestiti, persino un mercato immobiliare. Il tutto sotto gli occhi compiacenti delle autorità statali messicane, la cui influenza scema esponenzialmente più ci si addentra nella prigione. El Pueblito è una pericolosa babele di vicoli ed edifici fatiscenti – e interessante è la scelta di non approfondirne la geografia interna, per togliere allo spettatore ogni punto di riferimento che non siano i movimenti di Gibson; un labirinto nel quale però Driver si muove con la stessa sicurezza con cui l’attore che lo interpreta stende una sceneggiatura brillante e violenta insieme. Tra sequenze action sopra le righe à-la-Arma letale, dialoghi che sforano spesso in territorio-comedy e alcuni inaspettati picchi di violenza, Viaggio in Paradiso è un film che potrebbe essere uscito dagli anni Ottanta, con tutti i pro e i contro del caso.

I subplot sono (almeno) quattro, che si intersecano e influenzano, puntando con decisione verso lo showdown finale: sarebbe stato facile perdersi tra nomi e volti, tra poliziotti corrotti, ambasciatori altrettanto disonesti, criminali senza nome e un ragazzino con il vizio del fumo che aiuta Driver ad ambientarsi a El Pueblito (un eccezionale Kevin Hernandez). E invece non lo è, perché il film è francamente Gibson-centrico (al punto da permettersi qualche voice-over di troppo), costruito sul rapporto tra Driver e la galera, tra Driver e i galeotti, tra Driver e coloro a cui ha rubato quei milioni di dollari e che sono pronti a fare di tutto per recuperarli. Ruota tutto intorno a lui, l’antieroe che «seduce le donne e uccide i cattivi» per rubare una citazione da un altro B-movie (è un complimento) di questi ultimi anni.

E in questo senso sarebbe facile bollare Viaggio in Paradiso come un’operazione nostalgia, come un B-movie da domenica pomeriggio, di quelli che si scrivevano per vendere il nome dell’attore protagonista più che la storia. Nulla di quanto scritto nella frase precedente è falso; al contrario: l’estetica hard-boiled è spinta (quasi) oltre i limiti della parodia, tra pellicola sporchissima, montaggio imperfetto e regia grezza – e infatti affidata a un signor nessuno, l’ex regista di seconda unità di Gibson Adrian Grunberg. Ma basta guardare in faccia Driver quando sfodera la pistola per l’ennesima, stilosa sparatoria tra i vicoli di El Pueblito per capire che il signore che recita si sta divertendo un mondo, come non gli succedeva dai tempi di Payback – La rivincita di Porter (che incidentalmente raccontava quasi la stessa storia di Viaggio in Paradiso). Siamo ben lontani dalla perfezione, ma quando c’è sincerità è difficile non godersela un mondo.

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Mi piace
La prova di Gibson e del giovanissimo Kevin Hernandez. L’ambientazione: El Pueblito è una prigione viva e vibrante al punto da non sembrare ricostruita da zero.

Non mi piace
Al di là del fattore-intrattenimento, il film non lascia molto (né è quello che gli si chiede, a essere sinceri). La regia di Grunberg è competente e dignitosa, ma non priva di sbavature.

Consigliato a chi
Ai nostalgici degli anni in cui “Mel Gibson” era, insieme a una manciata di altri nomi, sinonimo di “action al cinema”.

Voto: 3/5 tendente al 4.

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