«Sul set avevamo questo gioco: io dicevo il nome di uno dei registi con cui avevo lavorato, e Tarantino mi rispondeva con i loro film. Per esempio: “Margheriti!”. E lui: “Il pianeta errante! I Diafanoidi vengono da Marte!”. E poi iniziava a recitare le battute, o a canticchiare la colonna sonora, cose che nemmeno io mi ricordavo». Mentre racconta la sua esperienza in Django Unchained, Franco Nero non può nascondere il piacere che gli danno questi aneddoti, figli di quella “special relationship” che lo lega al regista di Pulp Fiction e Kill Bill: sotto le sopracciglia folte, lo sguardo glaciale del vecchio pistolero si scioglie d’orgoglio e malinconia. «Mi portava da questi giovani attori americani e mi presentava così: “Voi non lo sapete, ma quest’uomo è stato la più grande star al mondo assieme a Clint Eastwood, Alain Delon e Charlie Bronson”».
Siamo al 15° piano di un grattacielo del centro di Milano e di questi tempi non è il posto più rassicurante del mondo. Il sole si pianta sulle vetrate larghe che sovrastano il Duomo, riscalda la pelle dei divanetti e favorisce la conversazione. Ma se qualcuno urta un tavolino, pensi subito a una scossa. L’occasione è la presentazione della decima edizione dell’Ischia Global Fest che Nero organizza ogni luglio sull’isola partenopea assieme al giornalista Pascal Vicedomini. E inevitabilmente la curiosità si concentra sull’esperienza di set che l’attore ha da poco concluso a New Orleans, nell’ambito di un film che è l’ennesimo, esplicito omaggio del regista americano alla stagione d’oro degli spaghetti western e del cinema di genere italiano. «Ho incontrato per la prima volta Tarantino a Roma, quand’era venuto a presentare Inglorious Basterds. Pare che avesse detto alla produzione: “Non me ne vado dall’Italia se prima non incontro Franco Nero”. Ci trovammo al Bolognese (un famoso ristorante della capitale, NdR). Lui arrivò con Eli Roth e mi raccontò la sua storia: a 14 anni aveva inziato a noleggiare VHS nei videostore, e si era appassionato ai miei film, tanto che andava in giro a chiedere proprio “i film di Franco Nero”. Io non sapevo se credergli, ma poi iniziò a ripetere a memoria interi dialoghi. A quel punto mi convinsi e gli chiesi se gli andava di recitare un cameo nel western che volevo fare con Enzo Castellari. Lui era entusiasta, e mi firmò anche una lettera di impegno, ma voleva sapere… come l’avrei ammazzato. Gli dissi: “Ti sparo con un fucile a canne mozze caricato con monete d’oro”. E lui urlò “I love it!, I love it!”».
Il tempo passa, e mentre il film di Castellari resta sulla carta, è Tarantino a rompere gli indugi, decidendo di concretizzare la sua passione per il western all’italiana e per uno dei suoi attori simbolo, in un film-omaggio al titolo probabilmente più importante e amato dell’intero genere: Django di Sergio Corrucci. In quel film del 1966, già rifatto nel 2007 in salsa orientale da un altro regista di culto, Takashi Miike (Sukiyaki Western Django, in cui tra l’altro Tarantino aveva un cameo…), Nero interpreta un pistolero reduce di guerra e in cerca di vendetta per la morte della moglie, che trascina con sé una bara dal contenuto “poco convenzionale”. «La notizia che Tarantino avrebbe fatto un film chiamato Django Unchained circolava da un po’, e tutti mi chiamavano chiedendomi del mio coinvolgimento: sembravo l’unico che non ne sapeva niente. Anzi: io rispondevo che era lui a dover fare il mio film! Poi un giorno mi chiama per davvero e mi spiega che il film è anche un omaggio a me, che io non posso mancare e che vuole propormi un cameo…».
Quel che Tarantino all’epoca non sa, è che Franco Nero la sceneggiatura l’ha già letta, e il suo cameo non gli piace: «Allora lo prendo d’anticipo e gli dico: “Ho un’idea per il mio ruolo”. Lui resta in silenzio per due minuti interi. Poi mi dice: “Fammici pensare”». Passano i mesi e non vola più una mosca. Nel frattempo Tarantino inizia a girare il film a New Orleans. Poi a febbraio Nero vola a Los Angeles con Pascal Vicedomini per un festival di cinema italiano che i due organizzano da anni a ridosso degli Oscar. «Tarantino lo viene a sapere, molla New Orleans, prende al volo l’aereo e mi raggiunge. Ci incontriamo a colazione, una mattina, al Beverly Hills Hotel, e iniziamo a contrattare. L’incontro dura tre ore. Lui mi ripete: “Trust me”. Alla fine troviamo una via di mezzo sul ruolo che piace a entrambi. Una settimana dopo la fine del festival sono sul set a New Orleans».
E qui i tempi iniziano a gonfiarsi a dismisura. Nonostante si tratti di un cameo, Quentin non vuole che Franco Nero riparta. «Se le inventava tutte, a un certo punto mi sembrava di essere diventato un ostaggio! (ride, NdR) Dovevo stare lì qualche giorno, ma mi sono fermato più di un mese. Alle volte capitava che lui decidesse di provare una soluzione nuova per una scena già girata. Un’altra volta è successo che dopo una sequenza in cui io e Leonardo DiCaprio urlavamo entrambi, lui ha perso la voce, e per una settimana non abbiamo potuto andare avanti. Continuava a far vedere Django a tutti, e nelle pause tra i ciak metteva su la musica del film…». E così Nero si ferma sul set molto più a lungo del previsto, fino a che ogni tassello va al suo posto, e Quentin “lo libera”.
Adesso che è tornato in Italia, nel cuore di un’industria che non ha più niente a che fare con quella che ha reso lui un mito e il cinema italiano un distributore di sogni e storie per il mondo intero, la malinconia per quell’incontro straordinario, si è trasformata, e mischiata, in quella per un mondo perduto: «In quegli anni lì il cinema si faceva in un certo modo, perché non c’era la TV… C’era un regista, un autore, che andava da un produttore e gli diceva: io voglio fare questo film. Se al produttore piaceva l’idea, iniziava a darsi da fare e metteva in piedi una coproduzione con Francia, Germania e Spagna. Nel frattempo c’era un venditore estero che fissava un buon minimo garantito. In questo modo si poteva girare un film dedicandogli tutta la cura necessaria. Le riprese duravano generalmente 12-15 settimane. Oggi i produttori di quel tipo non esistono più. Oggi i produttori li trovi in televisione o al ministero. Sono funzionari. Perché oggi non puoi fare un film se non vendi i diritti televisivi. Allora devi andare a bussare alle TV e iniziare a contrattare. Si ragiona sulle singole scene, viene fuori che una o l’altra non vanno bene per la prima serata, e tu devi tagliare. È chiaro che quella libertà di cui ti parlavo non esiste più».
E così, quando ci salutiamo, resta in testa quello sguardo di ghiaccio, 50% di orgoglio e 50% di malinconia, da vecchio pistolero con le dita spezzate. L’orgoglio e la stanchezza mentre ripete le parole di Quentin: “Voi non lo sapete, ma quest’uomo è stato la più grande star al mondo assieme a Clint Eastwood, Alain Delon e Charlie Bronson”.
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