L’ultima battaglia di Wolverine. La recensione di Logan

Il capitolo conclusivo della trilogia con Hugh Jackman è un film commovente, violento e adulto che rimette in discussione il linguaggio dei cinecomic

Logan

È sempre stato un eroe tragico Wolverine, ma la sua sofferenza è emersa solo a tratti nel corso del lungo franchise sugli X-Men. Anche la sua saga spin-off, pur esplorando maggiormente i suoi tormenti interiori, ha dovuto tenere conto sia delle regole del blockbuster per il grande pubblico sia di quanto raccontato nei capitoli precedenti. Logan, però, ultimo atto dell’era-Jackman, rovescia radicalmente gli elementi stilistici e narrativi di tutto quanto visto sinora.

Il film di James Mangold è una storia crepuscolare, che esibisce una violenza – anche verbale – mai così esplicita e racconta di un mondo distante anni luce dagli scenari descritti nel franchise. Gli X-Men non esistono (quasi) più e sono ridotti a miti, leggende le cui avventure vengono raccontate nei fumetti. Comprensibile che Fox si sia preoccupata alla vigilia: il primo impatto con queste nuove coordinate destabilizza e Logan si fatica a riconoscere per quanto è invecchiato, logorato dalle battaglie e soprattutto dall’adamantio che gli scorre nelle vene. E che ora gli chiede il conto.

Non l’abbiamo mai visto così disilluso, con l’animo inaridito quanto il deserto messicano in cui si è isolato, lavorando come autista di limousine. Accudisce Xavier, malato di alzheimer, ma con poteri psichici ancora attivi, sufficienti per sapere che per la razza mutante c’è ancora speranza. Il futuro ha le sembianze di Laura (Dafne Keen, una rivelazione), ragazzina che, oltre a essere una vera forza della natura, con Logan ha un legame di sangue che fa da ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà (leggasi New Mutants). Xavier lo sa e da vecchio saggio qual è li spinge sempre più vicini lungo il viaggio on the road che intraprendono, inseguiti da chi ora i mutanti li crea in laboratorio, per trasformarli in macchine da guerra letali e il più possibile controllabili.

Le dinamiche del trio sono sviluppate con una sensibilità adulta, che fa leva sull’importanza di sentirsi parte di una famiglia. Commuove il modo in cui Logan si prende cura del professor X, così come intenerisce vedere Laura recuperare, attraverso la scoperta di piccole cose, l’innocenza che le è stata negata.

Mangold gestisce questa profondità narrativa e psicologica senza appesantirla con caratteristiche da dramma esistenziale, anzi riesce ad alleggerirla nei momenti giusti con battute misurate e funzionali. C’è un realismo di fondo sorprendente, tanto che l’uso degli effetti speciali è ridotto all’osso, giusto per le scene in cui Xavier blocca il tempo (sorta di specchio rovesciato della spettacolare supervelocità al rallentatore di Quicksilver). L’intrattenimento sta poi nelle scene di lotta, sanguinose come se fossero in un western-pulp di Tarantino: l’effetto splatter c’è, ma non disturba, più che altro stupisce perché inedito (e forse anche inaspettato).

I problemi cominciano se si cerca di collocare il film all’interno della tortuosa linea temporale della saga X: Logan sembra infatti più un’opera a sé (anche all’interno della sua trilogia), riflessione toccante sulla vita e sulla morte che conferma quanto già sottolineato da Deadpool, seppur attraverso registri diversi: si possono realizzare cinecomic con linguaggi liberi dalle restrizioni dei grandi paradigmi Marvel/Disney e Warner/DC. E in questo senso, i complimenti vanno anche a Fox, per aver avuto il coraggio di rischiare con due titoli pronti a fare la differenza in un genere sempre troppo cristallizzato.

Hugh Jackman non poteva chiudere in modo più intenso, doloroso e commovente: è questo il vero Logan. E il miglior Wolverine di sempre.

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