Qualcosa di buono: intervista a Emmy Rossum

Lanciata dal telefilm cult shameless, in cui interpreta la problematica Fiona, la Rossum torna questo mese nei cinema al fianco di Hilary Swank nel commovente Qualcosa di buono, storia dell’amicizia tra una pianista affetta da SLA e la sua infermiera di Lorenzo Ormando

«Ora sono a Los Angeles, tra qualche settimana inizieremo a girare la sesta stagione di Shameless» mi confida Emmy Rossum quando iniziamo a parlare. «Ultimamente però passo molto più tempo a New York, dove ho appena comprato casa. L’unica pecca è che l’appartamento è piccolissimo. Quando dovrò organizzare una cena per gli amici li farò mangiare in camera da letto». 28 anni e un sorriso che l’ha fatta paragonare a Julia Roberts, Emmy è cresciuta, letteralmente, sullo schermo: dopo aver esordito con un paio di film per la Tv ed essere stata la figlia di Sean Penn in Mystic River (2003), ha raggiunto la notorietà con The Day After Tomorrow e Il fantasma dell’Opera, usciti entrambi quando aveva 18 anni. Il pubblico, però, la riconosce soprattutto grazie alla serie Shameless, di cui è protagonista dal 2011 nei panni di Fiona. Dal 27 agosto sarà nelle sale italiane con Qualcosa di buono, racconto dell’amicizia tra Kate (interpretata da Hilary Swank, anche produttrice), una pianista affetta da SLA, e Bec (Rossum), la scapestrata studentessa assunta per assisterla nella vita di tutti i giorni.

Best Movie: Che cosa ti ha colpito di questa storia?
Emmy Rossum: «Non credo molto al destino e non mi reputo particolarmente religiosa, ma il caso ha voluto che, quando mi hanno inviato la sceneggiatura, fossi diventata da poco amica di una donna malata di cancro alla quale avevano diagnosticato sei mesi di vita. Mi sono subito resa conto che c’era una connessione forte tra me e questo personaggio».
BM: Qualcosa di buono non si concentra solo sulla malattia di Kate, ma soprattutto sull’amicizia tra lei e Bec.
ER: «È la storia di due donne completamente diverse tra loro che si incontrano e, inaspettatamente, cambiano l’una la vita dell’altra. Kate ha tutto, mentre Bec è un disastro. E se all’inizio sembrano non capirsi perché hanno due background opposti, col tempo iniziano a supportarsi e incoraggiarsi a vicenda. E soprattutto imparano che non c’è niente di sbagliato a essere differenti dagli altri».
BM: Assistere alla malattia di qualcun altro ci porta spesso a riconsiderare le nostre priorità. Ti è mai capitato?
ER: «Mi succede di mettermi in discussione e non necessariamente in relazione a qualcosa di brutto. Spesso rifletto sulla società contemporanea, in cui siamo sempre connessi ma non per questo legati alle altre persone. Ultimamente ho lavorato a un workshop del Sundance: ero in mezzo alle montagne, lontana dal caos della città e senza rete telefonica. Non mi sono sentita sola, ma libera, senza distrazioni. Ho capito che a volte ci dimentichiamo cosa conta davvero nella vita».
BM: Come mai eri al workshop?
ER: «Ogni anno Robert Redford sceglie alcuni registi esordienti e fa loro da mentore: li aiuta a completare sceneggiature, a filmare scene particolarmente complesse, a trovare i finanziamenti. Ho avuto modo di lavorare con Nia DaCosta, una giovane autrice che ha scritto una storia molto toccante su due sorelle adottive, una bianca e l’altra di colore. L’atmosfera del corso è da campo estivo, si dorme nelle stesse stanze e si va a mangiare tutti insieme in caffetteria. Mi sono divertita molto».
BM: Ti è venuta voglia di passare dietro la macchina da presa?
ER: «Sono più interessata a produrre che a dirigere. Non mi piace avventurarmi in un campo se non sono sicura di riuscire nel migliore dei modi. Magari in futuro potrei dirigere un corto, ma in segreto, fino a quando non sentirò di essere pronta. Odio l’idea del fallimento».
BM: Ti definiresti una perfezionista?
ER: «Sì, anche se con gli anni sto imparando a rilassarmi perché ho capito che il termine non significa nulla. Se penso ai cantanti che ammiro, mi accorgo che le loro performance non sono mai perfette, anche se vengono eseguite e condotte in modo impeccabile. La perfezione, intesa nel senso più letterale del termine, non mi interessa».
BM: Nel corso della tua carriera hai avuto modo di lavorare con grandi registi e attori. C’è qualcuno che ti ha lasciato una lezione importante?
ER: «Mi vengono subito in mente William H. Macy, protagonista di Shameless, e Sean Penn. Nonostante abbia vinto due Emmy e sia stato nominato ad Oscar e Golden Globe, Macy non ha problemi, al termine di una scena, ad andare a chiedere un parere ai tecnici. È un uomo molto semplice, che non se la tira. E la troupe, che lavora con centinaia di attori e registi ogni giorno, capisce subito se una cosa è riuscita o meno».
BM: E con Sean Penn?
ER: «Sul set di Mystic River lo vedevo parlare da solo a voce alta prima del ciak per entrare nel personaggio. Questa è una cosa che faccio anche io e che ho imparato da lui. Penso che sia importante, a volte, fregarsene dell’imbarazzo. Nessuno è lì per giudicarti, non devi farti condizionare. Sono certa che i tecnici del suono ascoltino le più grandi stronzate mentre mi sentono blaterare da sola prima delle riprese!».

Leggi l’intervista completa su Best Movie di agosto, in edicola dal 28 luglio.

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