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Riviera International Film Festival: Dougray Scott e Claire Forlani spiegano i segreti del mestiere d’attore

I due famosi attori, marito e moglie, hanno incontrato il pubblico della manifestazione durante una masterclass

Riviera International Film Festival: Dougray Scott e Claire Forlani spiegano i segreti del mestiere d’attore

I due famosi attori, marito e moglie, hanno incontrato il pubblico della manifestazione durante una masterclass

Dougray Scott e Claire Forlani

La sala dell’Ex Convento dell’Annunziata di Sestri Levante è gremita per l’evento di oggi del Riviera International Film festival, la Masterclass di Dougray Scott e Claire Forlani sul Mestiere d’attore. Molti gli aspiranti attori, sceneggiatori e registi che hanno partecipato all’evento, per capire dai due navigati attori i segreti di un lavoro davvero arduo da intraprendere ad alti livelli.

Scott e la Forlani fanno coppia fissa dal 2007, quando si sono sposati (hanno anche un bambino), e si sono dimostrati incredibilmente disponibili e generosi con il pubblico del RIFF, che considerano un ottimo trampolino di lancio per i giovani registi.
A rompere il ghiaccio è stata l’attrice britannica, nota in Italia soprattutto per Vi presento Joe Black, ma che ha al suo attivo quasi 30 film, tra cui anche Basquiat e A un metro da te. Ecco come ha risposto, insieme al marito, alle domande del moderatore della masterclass Massimo Santimone.
Claire, com’è nato il rapporto con il regista di Vi presento Joe Black?
C.F. :«All’epoca ero molto intimidita: era il mio primo film grosso. Erano tutti attori famosi e influenti. Anthony Hopkins è stato incredibile con me, comunicava tantissimo e mi insegnava molti trucchi del mestiere. Rileggeva continuamente la sceneggiatura, per fare proprie le parole; ed è un insegnamento che ho fatto mio. Purtroppo, non andava molto d’accordo col regista, perché lui è un attore da massimo 3 take, mentre Martin Brest amava farne centinaia. Gli dissi: «Per favore, Tony, è il mio primo grande film, aiutami. Non te ne andare. Ed è rimasto per me. Quanto a Brad Pitt, ho fatto quasi tutto il film senza di lui, perché lui recitava le sue battute con una controfigura, ma quando era sul set era un vero spasso, uno che ama fare battute e sembra sempre molto rilassato. La grande forza di star di quel livello è che non si fanno piegare dalla pressione che gravita intorno a queste grosse produzioni. Ma non per tutti è così: molti attori bevono e si drogano, perché la pressione è altissima». 
C’è una scena del film, diventata di culto, in cui tu e Hopkins avete una discussione importante sull’amore, in cui lui ti dice che non sembri davvero innamorata dell’uomo con cui dovresti sposarti. Sembrate totalmente assorbiti da ciò che vi state dicendo. Com’è andato quel momento?
C.F.: «Di quella scena mi ricordo che Tony pensava che dovessi dire la mia parte molto velocemente ed è così che l’ho fatta. Non sapevo che fosse diventata così cult e virale, ma la cosa mi rende molto felice, perché avevo un bellissimo rapporto con lui».
Tu, Dougray, sei diventato famoso, invece, come Principe azzurro in La leggenda di un amore – Cinderella. Com’è stato questo inizio di carriera?
D.S.: «Avevo fatto tanto teatro e un paio di film prima, poi un film Twin Town, che ebbe un grande successo in Inghilterra e fu visto anche in America. Il regista Andy Tennat, dopo averlo visto, disse: “Lui non farà mai il Principe Azzurro nel mio film” e io ero venuto a saperlo. Ci incontrammo dopo poco e mi disse: “Sei bravo, ma non sarai mai il Principe Azzurro nel mio film”. Poi feci Deep Impact e il mio agente mi disse che mi avrebbe fatto conoscere Drew Barrymore e così l’ho pregata di farmi essere il Principe azzurro. Lei ne ha parlato con il regista e ci ha messi alla prova con un provino e alla fine ha detto: “Non so cosa tu abbia fatto, ma ti darò il ruolo”. Ecco com’è andata».
Avete attraversato tanti ruoli diversi, tra cui ruoli d’azione come The Medallion con Jackie Chan per te, Claire, e il ruolo del vilain in Mission: Impossible II per te, Dougray. Com’è prepararsi ai quei ruoli?
C.F.: «Jackie aveva una controfigura che lavorava con lui dall’inizio della sua carriera, e lui non parlava mai, e ci allenavamo ogni giorno per due ore. Non sapeva una parola d’inglese, ma capivo benissimo quando era deluso dalle mie performance. Una volta Jackie ha chiamato tutti, dicendo: “Ragazzi, ho fatto centinaia di film, ma lei – indicando me – è quella che mi ucciderà, perché avevamo tantissime scene in cui guidavo io, sia la motocicletta sia l’auto. È stata un’esperienza molto divertente».
D.S.: «Per Mission: Impossible 2 mi avevano detto che dovevo mettere su massa. Mi hanno costretto a mangiare tanto pollo e dovevo correre. E io odiavo tutte e due le cose. Oltre a questo, sono caduto dalla moto, mi sono rotto due costole, e così mi si è perforato un polmone. Mi sono rovinato parti della schiena e ferito le ginocchia. Beh, sì, è davvero divertente lavorare nelle scene d’azione…».
Tu, Claire, invece, raccontaci qualcosa della lavorazione di Basquiat
C.F.: «Non sapevo chi fosse Julian Schnabel e non sapevo chi fosse Basquiat. Ero andata a New York per fare un’audizione per James Ivory e lui non mi ha neppure guardata e poi mi ha detto che il mio provino era stato un vero disastro. Ero arrabbiata nera e il mio agente mi disse: “Se vuoi, c’è un provino per un film indipendente su Basquiat”. E così sono andata a fare l’altro provino ancora arrabbiata nera, senza aver letto la sceneggiatura, e invece che chiamare il protagonista Jean l’ho chiamato ‘Gin’ per 15 volte. Allora Schnabel mi disse: “Va tutto bene, solo che il nome è Jean, non Gin”. Io rifeci la scena, ma ero ancora confusa e continuai a chiamarlo Gin (ride). Alla fine fui presa lo stesso. Con Benicio Del Toro e Jeffrey Wright avevamo creato una bella alchimia. Una mattina un camion della produzione si presentò a prendermi e l’assistente del set mi fece pressione per arrivare presto. Io mi preparai di corsa, salii sul camion della produzione e, una volta arrivata, mi ritrovai lì David Bowie, Gary Oldman, Dennis Hopper, Willem Dafoe. Stavano tutti aspettando me: ero sotto shock. Quando è morto David Bowie, ho ripensato a quei giorni in cui abbiamo girato. La fondazione Warhol aveva mandato degli oggetti personali di Andy per il film e noi eravamo lì con un naso finto alla Andy, seduti per terra a mangiare cinese. A un certo punto Julian mette su un film su Wharol che prende delle farfalle e io non riuscivo a credere a cosa stava succedendo. È stato in quel momento che Bowie mi ha guardato e mi ha detto: “Sì, ragazza, sta succedendo davvero”.
Com’è stato lavorare con Liliana Cavani per Il gioco di Ripley, Dougray?
D.S.: «Liliana Cavani era una grande regista, molto precisa. Sul set mi prendeva la mano e mi diceva: “Vorrei che la tua mano fosse posizionata lungo questa linea mentre la schiena è appoggiata su quest’altra, e la testa è reclinata verso il basso. E io: “Cosa?”. Abbiamo iniziato a litigare ogni giorno, ma alla fine ha vinto lei. Un giorno – esasperato – le ho detto: “Mi arrendo. Hai vinto, farò tutto quello che vuoi”. Il giorno dopo ho sentito Malkovich che le gridava qualcosa e ho pensato: “Ecco, adesso è il tuo turno di litigare con lei”. Era una visionaria e, rivedendo il film, alla fine ho capito che aveva ragione. Ma è stata dura. Io faccio molta ricerca, mi preparo moltissimo e porto le mie idee sul set, ma a volte mi rendo conto che non sono le migliori. Devo ammettere che ho sempre preferito lavorare con registe donne, perché portano un’energia diversa. Spesso, un eccesso di regie maschili porta troppo testosterone sullo schermo. Credo che nel 2019, con i cambiamenti in atto, sia auspicabile che ci siano sempre più donne alla regia».
A proposito di testosterone, raccontaci qualcosa dello scontro con Tom Cruise in Mission: Impossible II. Come l’avete costruito?
D.S.:«Tom ama le scene di lotta ed era ovvio che tutta la tensione intellettuale che si era creata tra i nostri due personaggi nella fase iniziale del film culminasse in una scazzottata. Ovviamente Tom ha vinto, ma io gliel’ho fatta sudare».
Siete attori di Metodo? Avete elaborato un metodo personale? Come fate a ricreare le emozioni dal nulla sul set?
C.F.: «In effetti, i ritmi sul set sono serratissimi. Ci sono sempre meno risorse e budget, e così non c’è tanto tempo per calarsi in un ruolo. Nel corso degli anni ho assorbito un po’ da tutti i metodi e da tutti gli artisti con cui ho lavorato, ma perlopiù uso la sostituzione».
D.S.: «Ho lavorato con attori che sono brillanti e non si devono preparare. Ho studiato il metodo Stanislawsky, di Stella Adler, di Meisner. Come ha detto Claire, anche io pesco un po’ da tutti. Di solito mi costruisco un’immagine di come deve essere il mio personaggio nella mia testa. Ecco perché tormento i costumisti per farmi mostrare l’abbigliamento e le scarpe che indosserò, perché ho un’idea di come deve apparire. Poi cerco dentro me stesso se ho già avuto esperienze simili. Generalmente, però, mi piace agire sulla scena e non sul personaggio. La cosa più importante, al termine del processo, è cercare di restituire la verità».
Che differenza c’è tra lavorare per il cinema e per la Tv?
C.F.: «La Tv sta cambiando tantissimo. Per essere onesta, prima era piuttosto noioso fare una serie. Ammetto che ho girato CSI e NYS, perché avevo bisogno di portare soldi a casa, pagare il mutuo. Camelot, invece, è stata un’esperienza incredibile ed è stato eccitante tanto quanto fare un film, un film indipendente. I ritmi erano velocissimi e la sceneggiatura brillante. La Tv procedurale è diversa».
C’è ancora bisogno di trasferirsi a Los Angeles per fare questo lavoro?
D.S.: «Il nuovo panorama dell’on demand ha cambiato parecchie cose. Sono stato così ispirato da Gomorra e non avrei mai pensato di rimanere stregato da una serie italiana, ma il nuovo mercato ha cambiato gli equilibri. Quando abbiamo cominciato noi bisognava per forza andare a Los Angeles, ma adesso non è più così. Il mondo è a un passo da te. Questa è la bellezza del racconto: unire le forze».
Claire, sei stata la madre di Cole Sprouse in A un passo da te. Com’è stato lavorare con lui?
«Ovviamente, prima di lavorare con lui non sapevo chi fosse e non mi sono preoccupata di informarmi più di tanto. È cresciuto in Tv. Ha lavorato tantissimo sul suo personaggio. Ha perso 25 kg. Siamo entrati in questo rapporto madre/figlio con grande facilità. Sono rimasta colpita di quanto fosse educato con me e con il regista e di quanto fosse preparato. Io ho studiato molto, ma mi accorgo che spesso i ragazzi di oggi non sono altrettanto preparati. Sono rimasta colpita da lui, dalla sua conoscenza degli aspetti tecnici e dalla sua professionalità».

 

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