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Sex Education: tutti i colori dell’arcobaleno. La recensione della quarta stagione della serie Netflix

Gli ultimi episodi della serie che esplora sesso, identità di genere e molto altro sono già disponibili sulla piattaforma

Sex Education: tutti i colori dell’arcobaleno. La recensione della quarta stagione della serie Netflix

Gli ultimi episodi della serie che esplora sesso, identità di genere e molto altro sono già disponibili sulla piattaforma

sex education 4 recensione
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Dal 21 settembre 2023 è disponibile su Netflix la quarta e ultima stagione di Sex Education, serie che negli anni si è imposta come una deliziosa esplorazione sulla sessualità e l’identità di genere della società moderna, parlando con schiettezza e umorismo a nuove e vecchie generazioni, per dare a tutti un vocabolario comune sui temi affrontati. I nuovi episodi, tuttavia, sembrano aver portato la classe ben oltre i corsi avanzati, passando dalla realtà all’utopia.

È cambiato parecchio, per Otis e gli altri protagonisti. La maggior parte di loro ha cambiato scuola e dalla rigorosa e repressiva Moordale sono passati al college Cavendish, un luogo in cui convivono insieme tutte le istanze progressiste possibili e immaginabili, uno spazio coloratissimo di libertà di pensiero e di espressione sessuale e di genere. Qui Otis (Asa Butterfield) fatica a trovare spazio come terapista sessuale a causa della convivenza difficile con Sarah “O” Owen (Thaddea Graham), che offre il suo stesso servizio.

Non se la passano meglio gli altri protagonisti: Eric (Ncuti Gatwa, prossimo Doctor Who) è ancora alle prese con un complesso coming out familiare e comunitario; Maeve (Emma Mackey) tenta di seguire i suoi sogni ma è costretta a rientrare da Oltreoceano per un dramma familiare; la madre sessuologa interpretata da Gillian Anderson invece è alle prese con la nuova figlia neonata e una carriera che stenta a ripartire. Assieme alle loro, vengono narrate diverse altre trame che spaziano e indugiano soprattutto sulla sfera sessuale dei personaggi, un melting pot di colori e lettere dell’alfabeto che rendono Sex Education una serie inclusiva come forse nessun altra nel panorama televisivo.

Continua quindi a segnalarsi come uno dei più importanti prodotti del decennio per capacità comunicativa: con leggerezza e spesso disarmante umorismo, affronta questioni che ancora oggi vengono spesso ignorate o dismesse come “immaginarie” dalle istituzioni stesse, dimostrando tatto, sensibilità, apertura e un buon grado di onestà. Rispetto alle prime tre stagioni, tuttavia, questa volta si è voluto alzare un po’ troppo l’asticella e da tableu vivant della società moderna ha assunto una connotazione marcatamente utopica.

Il Cavendish College è un non-luogo, uno spazio fantastico nel quale studenti transgender e omosessuali convivono in un ambiente idilliaco e in cui la gentilezza (o la sua ostentazione) è il diktat imperante. Benché sia chiarissimo come gli autori di Sex Education abbiano voluto rappresentare un mondo ideale, compressando tutte le possibili declinazioni umane in pochi personaggi, il risultato finale è persino deleterio rispetto agli stessi intenti dichiaratamente educativi che la serie si impone. Non esiste una scuola o una realtà come questa, o quantomeno non in misura significativa da poter essere percepita come meno che pura utopia sociale (la ragazza transgender Abbi, che si muove in bici perché è green e propone di andare a mangiare in un nuovo posto vegan è un esempio di questa compressione forzata).

Da Sex Education non ci si aspetta chiaramente botte di cupo cinismo, perché per questo esiste già Euphoria come contraltare. Tuttavia, questo taglio dato soprattutto ai primi episodi rischia di creare un profondo divario tra una rappresentazione puntuale della società di oggi (nella quale quindi molti si possono riconoscere) e gli aspetti più utopici. Paradossalmente, pur andando avanti con l’età dei protagonisti la serie ha assunto una dimensione più teen, incappando in quei cliché che invece era stata bravissima a evitare nelle passate stagioni. Sono ancora più marcati gli aspetti fantasy dello spazio scenico, tra colori sgargianti ovunque, case che sembrano uscite da The Sims e quant’altro. Anche la questione stessa della terapia sessuale offerta da Otis, inizialmente inserita in un contesto di “bravata adolescenziale”, ha assunto qui un’allucinante serietà professionale.

L’intendo educativo è ancora evidente e l’ultima stagione non fallisce nel suo intendo di dare spazio a espressioni e reclami identitari, ma nel complesso ha lasciato da parte il metodo maieutico con cui affrontava temi complessi ma importanti per adagiarsi su una rappresentazione non più così onesta o empatizzante. Per sua fortuna, il range emotivo e drammatico cresce con l’avanzare delle varie storie (soprattutto per Maeve e Jackson), lasciando spazio a toni e temi più maturi in grado di riconquistare attenzione e portare verso il gran finale. La sensazione, però, è quella di un finale in eccessivo crescendo, una parabola di inclusione che ha dimenticato di guidare per mano il suo pubblico verso questo mondo ideale in cui tutti siamo liberi, accettati e il pensiero positivo è imperante.

Foto: Netflix

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