Cannes 2016: Paul Verhoeven chiude tra gli applausi il concorso. La recensione di Elle

Il regista di Robocop dirige Isabelle Huppert in un dramma che inizia con uno stupro e si trasforma piano piano in una commedia grottesca

Elle di Paul Verhoeven è in concorso a Cannes 69

Dentro un Festival pieno anche quest’anno di film realisti che riflettono sui limiti della morale pubblica nel risolvere conflitti privati, Verhoeven fa a pezzi i fondamenti stessi del discorso sociale dominante (un po’ come Guiraudie in Rester Vertical, un altro dei titoli più interessanti di questa edizione) costruendo un finto thriller che si disfa una scena dopo l’altra, fino a mostrarsi per quel che è, cioè una satira.

In Elle parte da uno stupro – è la prima scena del film – per costruire attorno alla sua protagonista, un’imprenditrice proprietaria di un’azienda di videogiochi, una rete di relazioni umane in cui praticamente nessuno rispetta il proprio ruolo e tutti si rendono ridicoli: Elle va a letto con il marito della sua migliore amica, ha una madre che vuole sposare un escort, la cognata che tradisce il figlio e partorisce un neonato mulatto, l’ex compagno che si è messo assieme a un’insegnante di yoga che confonde i suoi libri con quelli di un omonimo.

Lo spostamento di senso avviene attraverso le sue reazioni, perché Elle a questo contesto disastrato oppone serenità e ironia, non perde mai davvero la calma, c’è una quiete buffa che dentro una storia così è già da sola rivoluzionaria. Ad esempio dopo il primo stupro Elle si fa una doccia, raccoglie i cocci dei soprammobili rotti nella collutazione, ordina del sushi per telefono e cena – lucidissima – con il figlio. Scopriremo poi che questa serenità le deriva da un trauma primario “imbattibile”, subito da bambina, che invece di farla crollare le ha conferito una lucidità paradossale, una naturalezza estrema nella gestione delle emergenze, un senso minimo del dramma.

Come è facile immaginare, il rapporto con lo stupratore evolverà poi più volte, arrivando alla fine a un’idea di giustizia chiara e funzionale, lavata di qualsiasi preconcetto conservatore.
Il tono del film è insomma dettato dal tono del personaggio – la sua resilienza trasforma il perturbante in una nuova norma, traduce una moralità diversa – che è poi il tratto di tipico del lavoro di Verhoeven, qui allo zenith della sua chiarezza.

C’è infine, e al di là di tutto, una magnifica scrittura dell’intreccio, capace di avvincere e trasferire questa visione del mondo in modo molto più efficace di tutto il cinema realista ed esplicitamente morale visto quest’anno a Cannes.

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