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American Sniper: la recensione di loland10

American Sniper: la recensione di loland10

“American Sniper” (id., 2014) è il trentacinquesimo lungometraggio del regista-attore-produttore di San Francisco Clint Eastwood.

Come non ricordare ‘l’uomo nel mirino’ per decodificare il cecchino americano più letale e come non constatare che l’uomo yankee deve manifestare la sua misera voglia di compiacere in un mondo guerrafondaio e in un letamaio pieno di pallottole fumanti?
L’ultimo film del regista denota in partenza una chiusura dentro un bersaglio da colpire: ad ogni costo e senza perdere nessun tempo da vivere in libertà. Dentro la misura di un’arma di precisione il cecchino sente il pulsare della vita a grande distanza (fino ad un paio di chilometri) e senza metafora di sorta è il cuore che fa sentire l’odore della polvere e della fine di una respiro. Dentro si spara mentre una pallottola saetta (stile ‘matrix’ purtroppo per finzione) sopra il nemico in avanscoperta e radendo una tempesta di sabbia mentre Mustafà (il nemico di un nemico da ‘annientare’) è sicuro di sé fino a quando il sangue esplora lo schermo e sancisce (come se non ce ne fosse bisogno) la fine della guerra mentale del cecchino (‘occhio per occhio’ come viene ‘sancito’ appunto) con il cervello fuso di idee è sempre dentro la punta di un’arma letale.
Una guerra dentro il complesso di ‘superiorità’ e di ‘protezione’ ad ogni costo per un Paese che spiega (o meglio smaschera senza ipocrisia alcuna) il percorso di un Navy Seals e la cultura (senza parafrasi di sorta) di ‘giustizia’ comunque o meglio di dogma (quasi inculcato nella bandiera sventolante a stelle e strisce) inspiegabile di ‘soluzione’ immediata con voglia minima (per non dire nulla) di essere dall’altra parte e di cercare di capire il senso di quello che si sta facendo. Armi sempre e comunque puntate. E la ‘giostra-famiglia’ (quasi a parare il discorso del tutto della vita e il suo gusto di percorrerla senza sconto alcuno) iniziale del padre con il figlio per una battuta di caccia ridà forza e coraggio a chiunque: e l’adulto (perché tale è il suo compito) ammonisce severamente il bambino di ‘non lasciare mai il fucile’ per terra e averlo sempre in mano. Dopo che la preda è esanime non bisogna mai demordere e mai abbandonare l’occhio sul fucile da puntare. E lo schema-incipit sembra presa da ‘Il cacciatore’ (The Dee Hunter, 1978) di Michael Cimino ma siamo lontanissimi e agli antipodi di quello che è l’imprimatur-visivo con un De Niro folgorante. Lì il Vietnam, qui l’Iraq, di guerra si tratta ma la forza e il coraggio danno risultati che non sono minimamente da discutere.
“American Sniper” tenta di divorare il linguaggio ‘guerra-morte’ entrandoci dentro e sporcandosi vistosamente le mani ma non riuscendo (quasi mai) ad anteporre il desolante risultato finale (le tante vite umane uccise come da centro al bersaglio) come vera sconfitta della guerra senza ‘umana-ribellione’ mentre il grigiore dello sguardo di Kyle-cecchino è solo di una nazione serva di se stessa e annichilita dallo sguardo (orripilante) di un’arma sempre (e costantemente) puntata. Puntate e sempre puntate anche in un funerale (come da ordinanza e da copione) di un marine lo ‘sfogo’ delle armi è quasi ‘salutare’ per una madre che ha l’animo rimbombante di pallottole vicine (per ‘ben’ tre volte la scena ci fa sorbire lo scarico del fumo delle pallottole per dare l’addio al ‘ragazzo’ che ha dato la vita per il suo Paese).
Il cecchino americano (‘leggenda’ da tutti chiamato) Kyle che parte per l’Iraq per difendere i suoi ‘compatrioti’ in una guerra (che sembra a pochi sbagliata) con scontri ravvicinati e lontani. Per ben quattro turni parte (circa mille giorni come viene detto al suo ritorno in un centro di reduci) per le viscere di un Paese straniero sconosciuto: l’importante e sparare e difendere i ‘suoi’ dall’assedio nemico. Basta puntare e centrare con precisione. I primi due una madre e il suo bambino: ‘non pensava di iniziare in quel modo’. Uno chock per il ‘cecchino’ : tutto resta latente e sfuggevole nella storia. Appare quasi inespressivo l’umore forzato di un americano che non sembra lontano dal suo personaggio. E il suo funerale è un omaggio al suo mondo di ‘leggenda’. In altre parole non c’è mai un distacco tra la storia reale di Kyle e una posizione o immagine di sdegno da parte della regia. Attore e personaggio è tutt’uno, Regia didascalicamente a tinte forti Mai un senso di fastidio nel girato. Le scene agghiaccianti non sfuggono al loro destino di ‘sano’ epitaffio a corpi maciullati e a destini infangati di defecazione (continua) in un Paese ‘schifoso’ (volendo distinguere sempre e comunque quale no nonostante una voce di un marine fuori dal coro). Mai piangere, mai lacrime, essere duri a tutti i costi (e il riferimento amoroso appare senza metafora mentre la donna approfitta della mancanza a letto del suo uomo).
Infastidito con un certo ribrezzo, poco inspirato e alquanto monocorde. Forse le intenzioni erano altre ma il film ‘dimostra’ la teoria dell’assalto senza sconti. E’ la guerra giusta c’è sempre. Però… non appare mai. Dio, Stato, Famiglia. La Bibbia si vede sempre chiusa. Il Paese si vede sempre nella bandiera. La Famiglia c’è ma è lontana da tutti.
Kyle (un bravo Bradley Cooper) ‘leggenda’ è lontano da tutti (con un. Un cecchino che vuole giustizia senza sosta. Epilogo amaro in un funerale che non attacca il destino dell’uomo comune (che non vuole sempre e comunque parate).
Voto: 5–.

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