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Una elegante motosega

Ovvero come due talenti dell'horror francese hanno rivitalizzato la saga di tobe Hooper con il prequel Leatherface, per il quale scomodiamo addirittura Malick e Argento

Da febbraio 2016, Roberto Recchioni (fumettista e romanziere, oltre che curatore di Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore) firma su Best Movie A scena aperta, rubrica in cui svela i segreti delle scene più belle dei film disponibili in home video.

Partiamo da una premessa chiave: non sempre un buon film ha al suo interno una scena particolarmente significativa per come è raccontata. E non sempre un brutto film ne è per forza privo. Nel caso di questo Leatherface, ci troviamo davanti al primo caso: è un film sorprendentemente buono nel suo complesso, composto di una sequenza continuata di ottime scene, ma non ha un momento facilmente isolabile come più rilevante degli altri. Ma andiamo con or-dine e diamo un minino di contesto.

Nel 1974, Tobe Hooper, all’epoca regista totalmente indipendente, prendendo un vago spunto dalle vicende del serial killer Ed Gein, riesce a mandare in sala un film horror che entrerà nella storia: Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre). Pellicola seminale che definisce, da sola, un’intera corrente, generando un’infinita serie di cloni. Ci vogliono dodici anni però per vedere il primo sequel ufficiale (sempre di Hooper, con risultati non così brillanti) e poi altri quattro per il terzo (regia del mestierante Jeff Burr, che confeziona un film scemo ma non offensivo). A 20 anni dal primo capitolo arriva anche il quarto, diretto da Kim Henkel, uno degli sceneggiatori della pellicola originale che, forse, sarebbe stato meglio se fosse restato alla scrittura. Poi scende il buio. Gli horror e gli slasher non tirano più come prima, lo splatter non è più roba da sala e i mostri “classici” vengono messi in ripostiglio.

Nel 2003, Michael Bay decide di realizzare un remake del primo film e lo fa dirigere all’esordiente Marcus Nispel, un regista con un buon occhio per le immagini glamour, adatte alla pubblicità di un profumo ma molto meno alla saga della motosega, che viene privata di tutta la sua carica eversiva e sanguinolenta. Va meglio, parecchio meglio, nel 2006 con il prequel del remake (lo so, la definizione fa ridere ma questo è) diretto da Jonathan Liebesman (altro rampollo della scuola di Bay). Nel 2013, in piena febbre da stereoscopia, esce Non aprite quella porta 3D di John Luessenhop, che si pone come sequel alternativo del film del 1974 (ignorando il secondo capitolo originale della saga) e fallisce miseramente sotto ogni punto di vista, seppellendo, apparentemente, il franchise.

Poi arrivano Alexandre Bustillo e Julien Maury, i due enfant prodige del nuovo cinema horror francese. Quelli che hanno dato al mondo un’opera urticante e riuscitissima come À l’intérieur, e le cose cambiano. La storia è nuovamente un prequel ed è ambientata alle origini del mito, ovvero quando il mostro noto come Leatherface era solo un ragazzino che non aveva mai preso in mano una sega a motore. I due registi optano per un approccio solido e privo di fronzoli. Entrano nel vivo subito, con due scene durissime e sparate in faccia allo spettatore una via l’altra, e poi mantengono il ritmo, tanto narrativo quanto delle uccisioni, fino ai titoli di coda.

Il film è raccontato attraverso immagini curate ma non per questo patinate. La resa del Texas rurale degli anni ’50 passa attraverso una tavolozza di colori che sembra presa da un quadro di Norman Rockwell (se Rockwell avesse mai dipinto ammazzamenti e mutilazioni) con colori caldi e intensi e un uso sovrabbondante del giallo e dell’ocra. E del rosso, ovviamente. Uno stile “Hillbilly Chic” alla maniera della Casa del diavolo di Rob Zombie, che fa credere allo spettatore smaliziato di poter prevedere facilmente quale sarà lo sviluppo della pellicola. Ma i due registi si rendono pienamente conto del rischio di ricadere sul già visto e cambiano completamente registro, portandoci prima in un ospedale psichiatrico – che, per come è raccontato e fotografato, ricorda da vicino gli incubi del nostro Dario Argento (di cui i due sono grandi fan) – e poi di nuovo nella campagna texana, con uno stile che strizza l’occhio a Malick più che al genere horror. La conclusione torna invece sui binari noti, con una rappresentazione estetica molto fedele all’approccio originale di Hooper (per quanto ripulito, purtroppo, della sua vitale rozzezza).

I vari approcci stilistici all’immagine (tutti amalgamati in maniera coerente), fanno in modo che lo spettatore non si trovi mai ad annoiarsi nell’osservare il dipanarsi di una storia che ha davvero poche sorprese da offrire dal punto di vista narrativo (del resto: la fine è nota sin dall’inizio). In sostanza questo Leatherface è un film che attraverso il suo “come”, definisce e nobilita il suo “cosa”. E non è impresa da poco, ve lo assicuro. In tutto questo, purtroppo, non ci sono però dei picchi memorabili, dei momenti da mettere nel proprio cassetto dei ricordi. Il film è solidamente costruito con lo scopo, puro e semplice, di intrattenere alla maniera in cui dovrebbe sempre intrattenere un horror: con il sangue, la sgradevolezza e la tensione. Niente di meno. Ma nemmeno, niente di più. Peccato, perché sarebbe bastato poco per trasformare la pellicola in un gioiello. Ma, tutto sommato, meglio così, perché ci voleva ancora meno per mutarla in un disastro.

Foto: © Campbell Grobman Films/LF2 Productions/Lionsgate/Mainline Pictures/Millennium Films

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