Westworld: dove tutto è complesso. La recensione della quarta stagione

I nuovi episodi della serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy ripartono dall'ingarbugliata matassa narrativa e concettuale che ha reso grande lo show

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PANORAMICA
Regia (4)
Sceneggiatura (2.5)
Interpretazioni (3)
Fotografia (4)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (3.5)

Nella prima scena della quarta stagione di Westworld si parla di resilienza, ovvero della capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi, ma anche quella di un individuo di affrontare e superare eventi traumatici. Una parola che riassume bene l’andamento della serie creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy per HBO e basata sul film del 1973 di Michael Crichton, Il mondo dei robot.

Dopo due folgoranti stagioni, la terza aveva mostrato profondi segni di smarrimento nel proprio stesso intricato labirinto narrativo, lasciando più che perplesso il suo pubblico. L’abbandono del parco a tema western e lo slittamento narrativo e semantico nel mondo degli umani, infatti, aveva creato le premesse per un discorso concettualmente molto più complesso. Forse troppo, da gestire e veicolare.

La quarta stagione riparte da lì ma cerca di semplificare il tutto con linee narrative più demarcate e intuitive da seguire: dopo aver fermato la Incite e Rehoboam, il computer quantistico in grado di prevedere ogni dettaglio del futuro degli esseri umani e togliere così loro il libero arbitrio, le cose non sono andate meglio. Le ex attrazioni di Westworld hanno infatti preso il controllo del mondo (o di una sola città, particolare non sempre chiaro) e ribaltato i rapporti di forza e controllo rispetto alle prime due stagioni.

A osteggiare i piani di Charlotte Hale e del Uomo in Nero interpretato dalla stella assoluta della serie, Ed Harris, ci sono ancora Bernard, Maeve e l’umano Caleb (Aaron Paul). Il primo acquista un ruolo ancora più centrale: ha passato un’eternità collegato al Sublime (l’Aldilà creato per ospitare le coscienze degli androidi) e ogni suo passo è quindi condizionato dal sapere sempre esattamente cosa accadrà. Un aspetto allo stesso tempo accogliente, perché affida lo spettatore ad una guida sicura, ma anche problematico perché costringe ad un finale antitetico in crescendo, in cui l’unica possibile mossa è ribaltare la scacchiera e tutto il tavolo.

Il grande pregio di Westworld è sempre stato il tentativo di combinare un impianto narrativo denso e una messa in scena ambiziosa. In ambito televisivo, non sono molte le serie interessate a fornire intrattenimento di qualità che rifletta (o tenti, quantomeno) su vari temi di difficile digestione – specie ora che il focus non è più antropocentrico su un mondo dominato dagli uomini ma uno in cui cui l’umanità deve dimostrare la stessa resilienza delle attrazioni su cui si è sfogata per anni.

Temi come la reificazione: la conversione in oggetto concreto di un’esperienza astratta, o in questo caso di intelligenze artificiali. La fenomenologia dello spirito: il percorso che l’individuo (macchina) compie partendo dalla propria presa di coscienza per identificare il modo in cui il suo spirito si innalza dalle forme più semplici della conoscenza fino al sapere (e al controllo) assoluto. Quindi la deificazione: l’assunzione a divinità di Maeve e delle altre attrazioni. Infine, nelle due ultime stagioni, il focus si è spostato su libero arbitrio prima e trascendenza ora.

Westworld mette evidentemente tanta carne al fuoco e non sempre riesce a cuocerla al punto giusto: spesso richiede allo spettatore uno sforzo e un interesse probabilmente maggiore rispetto ad altre serie, ma vale il tentativo. È fallibile, esattamente come l’umanità stessa, ma interessata a esprimersi al meglio delle sue possibilità.

A Westworld, stando alle dichiarazioni del suo protagonista Ed Harris, manca ancora una quinta e ultima stagione. E benché i fasti ludici della prima stagione siano ormai un lontano ricordo, quello tracciato è un percorso che vale la pena vedere dove andrà a finire.

Foto: HBO

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