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Hunger Games: la recensione di Alessia Carmicino

Hunger Games: la recensione di Alessia Carmicino

“May the odds be ever in your favor”.

Come per altre famose saghe letterarie, anche le origini di The Hunger Games appartengono ormai alla leggenda: il mito racconta di una sera come tante altre, trascorsa facendo zapping davanti alla tv, in cui la scrittrice Suzanne Collins si sarebbe ritrovata a passare dall’ennesimo reality show alle notizie sui caduti in Afghanistan, notando improvvisamente un’inquietante somiglianza nella violenza delle due visioni.

Ecco allora lì dove oggi si estende il Nord degli Stati Uniti la nascita della Terra di Panem, figlia di un futuro distopico che ha consegnato la nazione nelle mani della privilegiata Capitol City: sfruttati e sottomessi per scongiurare ogni tentativo di ribellione, i 12 distretti del Paese sono costretti a partecipare agli Hunger Games, spietato reality show in cui un ragazzo e una ragazza, estratti a sorte per sacrificarsi come tributi al mantenimento della pace, combattono all’ultimo sangue per deliziare gli abitanti della Capitol.

A quasi un anno dalla fine di Harry Potter e con l’imminente conclusione del ciclo di Twilight, era solo questione di tempo prima che un’altra saga cercasse di farsi strada nel cuore di lettori e spettatori: pubblicato nel 2008 e primo di una trilogia di successo, Hunger Games si è guadagnato di diritto il suo posto nel meccanismo, grazie a uno spunto forte e affascinante che si allontana a passo svelto dalle avventure dei suoi fratelli letterari.

Se l’Hogwarts Express conduceva Harry e i suoi amici in un mondo magico e meraviglioso, quello che i tributi del distretto 12 Katniss e Peeta compiono a bordo del lussuoso treno inviato dalla Capitol è il viaggio verso una morte quasi certa e inevitabile: ad accogliergli, dopo una fastosa parata che li vede sfilare come gladiatori prima di entrare nell’Arena, non c’è la rassicurante saggezza di Albus Silente ma la glaciale presenza del Presidente Snow, dominatore assoluto di Panem e ideatore dei giochi, che tiene in pugno i distretti affamandoli con la flebile speranza di un vincitore.(“Hope, it is the only thing stronger than fear. A little hope is effective, a lot of hope is dangerous. A spark is fine, as long as it’s contained.”)

Capitol City, potente centro del regime, celebra il trionfo sulla sventurata Nazione con avveniristiche architetture e una moda grottesca e caricaturale: ottimo in tal senso il lavoro su costumi e scenografie di Judianna Makovsky e Philip Messina, impeccabili nel riprodurre con graffiante efficacia le luci di un mondo dorato che nutre dello spettacolo dell’oppressione la sua vanesia essenza.

Lontana anni luce dall’essere una damigella in pericolo come la coetanea Bella Swann, la sedicenne Katniss Everdeen sembra piuttosto il riflesso della Ree Dolly di Un Gelido Inverno(Winter’s Bone) di Debra Grenik: lasciata sola dopo la morte del padre a prendersi cura della madre inadeguata e della fragile sorellina, armata di arco e frecce come un’eroina dell’antichità questa coraggiosa cacciatrice sembra subito destinata a grandi imprese, ma è senza dubbio la straordinaria interpretazione di Jennifer Lawrence a fare davvero la differenza. Fra le più brave interpreti della sua generazione, questa giovane attrice mette anima e corpo per incarnare con passione un personaggio dallo spirito indipendente e combattivo, talmente abituato a proteggersi dal mondo da rendersi impenetrabile persino per lo spettatore: difficile dire se il suo amore per il dolce compagno Peeta(un bravo Josh Hutcherson) sia del tutto sincero o alimentato ad arte, in favore di un pubblico impaziente di fare degli amanti sfortunati del distretto 12 i propri beniamini.

Difficili da dimenticare anche le prove dei numerosi caratteristi: dall’ Haymitch di Woody Harrelson, mentore assegnato a Katniss e Peeta che affoga nell’alcol il ricordo dei tanti ragazzi mandati a morire, alla presentatrice Effie Trinket di una Elizabeth Banks quasi irriconoscibile sotto il pesante trucco e parrucco imposto dalla moda della Capitol, fino allo spietato e risoluto despota Coriolanus Snow di Donald Sutherland; il migliore resta però Stanley Tucci nei panni dell’estroso conduttore dello Show Caesar Flickerman, abile manipolatore sempre pronto a costruire il giusto dramma per intrattenere il suo pubblico.

Nel confrontarsi con la storia di una violenta lotta per la sopravvivenza, il regista Gary Ross(Pleasantville, Seabiscuit) ci getta nell’Arena con inquadrature nervose e inquiete, deciso ad approfittare della concitazione degli scontri per distogliere lo sguardo dal bagno di sangue degli Hunger Games: la scelta, perfettamente funzionale al desiderio di abbracciare senza troppe restrizioni il target di riferimento del film(la pellicola è PG-13), riesce nell’impresa di non compromettere la crescente tensione degli eventi, lasciando la morte libera di agire dietro le quinte per poi mostrarci il risultato della sua opera; l’esclusiva delle scene più cruente dei giochi resta alle telecamere della Capitol, ma vedere gli occhi di vetro di una ragazza senza vita o uno schizzo di sangue sul muro è già sufficiente.

Immerso nelle suggestioni di un futuro post apocalittico in cui nessuno vorrebbe mai risvegliarsi, Hunger Games è un’esperienza intensa e appassionante, fantasma di quello che siamo e che potremmo diventare che porta con sé amari e inquietanti interrogativi: non un semplice film per ragazzi, ma qualcosa di più.

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