Una notte di 12 anni

Una straziante storia di tortura e prigionia, un episodio vergognoso della storia uruguaiana

Una notte di 12 anni
PANORAMICA
Regia (3.5)
Interpretazioni (4)
Sceneggiatura (3.5)
Fotografia (3.5)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (3.5)

Nel 1973 l’Uruguay è sotto il giogo di una dittatura militare. In una notte autunnale tre Tupamaros uruguaiani, oppositori politici accusati di essere pericolosi sovversivi e traditori della patria, vengono fatti prigionieri e posti in isolamento. Una condizione che sperimenteranno sulla loro pelle per dodici lunghi anni. Sono Pepe Mujica (Antonio de la Torre), futuro Presidente dell’Uruguay, Mauricio Rosencof (Chino Darín, figlio del grande Ricardo), detto “lo scrittore”, ed Eleuterio Fernández Huidobro (Alfonso Tort), “El Ñato”.

La notte dei 12 anni, presentato nella sezione Orizzonti alla scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia, è l’opera terza del regista di Montevideo Álvaro Brechner e narra una delle pagine in assoluto più cupe e feroci ali della storia delle dittature sudamericane. Messa in scena con rigore, ma anche con una forza espressiva disposta a varcare i confini del semplice cinema di denuncia sociale e politica. Un vero e proprio elettroshock.

Le immagini insistono sulla durezza insostenibile della situazione disumana in cui sono piombati i tre protagonisti, con una sensibilità estrema tanto per i volti quanto per gli oggetti. Un baratro senza apparente via d’uscita fatto di linee da non oltrepassare, da gabbie mentali oltre che fisiche. A riprova di quanto ogni regime coercitivo e liberticida degno di questo nome sia capace prima di tutto di far presa sulle menti di coloro che brutalizza e pone in uno stato di subalternità.

I corpi, nel film di Brechner, sembrano paradossalmente venire dopo, anche se occupano la ribalta più putrida e vergognosa che si possa immaginare, anche se sono il cuore e le viscere di tutta l’operazione. Come emanazioni spettrali che non appartengono più ai proprietari, ai quali sono rimaste esclusivamente le torture, le luci fioche, l’attenzione millimetrica e angosciata per i dettagli che li circondano e che pare essere l’unica cosa in grado di sopravvivergli.

Lo stile è reso rovente da una precisione poetica che è così coraggiosa da utilizzare in modo piuttosto sapiente anche gli strumenti propri dell’enfasi. Non risparmia nemmeno pensieri e parole in sovrimpressione, usandoli come confessioni afone, non si tira indietro quando è il caso di rappresentare i sogni spudorati e le rievocazioni sentimentali di Rosencof e Huidobro o i ricordi a tinte forti di Mujica.

La notte dei 12 anni si apre con un estratto da Nella colonia penale di Franz Kafka e, a partire dalla suggestione dell’opera del grande scrittore cecoslavo, Brechner trova in maniera naturale e organica la propria voce. Confrontandosi in tutto e per tutto, come cantavano Simon & Garfunkel che sentiamo anche nel film, con il suono del silenzio, con un’oscenità difficilissima anche solo da ipotizzare e ancor più da visualizzare.

Se la missione può dirsi compiuta è merito soprattutto di una notevole intelligenza cinematografica, che non arretra al cospetto della mostruosità. Senza rinunciare al paradosso ironico e ai cortocircuiti imbarazzanti del potere, per raccontare un inferno in terra in cui la croce da portare non è tanto ciò che è già trascorso, ovvero gli anni ormai perduti, ma quello che resta. Un assunto universale e spaventoso, più che mai attuale: in tempi in apparenza (e probabilmente anche in sostanza) così ottusi e immemori come quelli che stiamo vivendo e attraversando, ciò che bisogna temere forse non è tanto il passato, ma proprio il futuro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA