Glass: tre supereroi in cerca d’autore

Una riflessione sull'ultimo, ottimo film di M. Night Shyamalan: ferocemente teorico, esageratemente didascalico ma anche affascinante e compiuto.

Glass, Courtesy Universal Pictures

Se nella filmografia di un maestro del colpo di scena come Shyamalan Unbreakable è considerato un cult imbattibile è perché qui i twist non sono solo diegetici, ma teorici e metatestuali. Ovvero: non si limitano a cambiare in modo brusco lo sviluppo e la prospettiva sugli eventi raccontati, come ad esempio in Il Sesto senso e Signs, ma cambiano genere al film (questo succede anche in The Village, ed è un colpo di prestigio mica male), trasformando un thriller soprannaturale in un cinecomic puro e contemporaneamente in un piccolo trattato sulla mitopoiesi (scusate il parolone) dei supereroi.

Split, molti anni dopo, riprende lo stesso prestigio, quando più nessuno se lo aspettava, e se da una parte ricicla il medesimo scarto teorico (non molto interessante, secondo me), dall’altro ne propone uno metatestuale nuovo: qui il twist trasforma infatti una storia apparentemente originale e indipendente, in un sequel. Geniale. Non come Unbreakable, ma comunque geniale.

E veniamo a Glass. Qui l’unico scarto teorico e metatestuale possibile (almeno, l’unico che venga in mente a me) è la retromarcia. Ovvero: a differenza di quanto avevate creduto in questi 15 anni, questi non sono supereroi. E via con lo smantellamento del castello di carte di Mister Glass. Ovvero: non abbiamo mai parlato davvero di supereroi, era sempre e solo un thriller.

Il problema – e Shyamalan, che ci vede sempre lunghissimo, lo sa bene – è che impacchettare il film così, seguendo in un certo senso le solite regole, sarebbe stato paradossalmente… prevedibile.
Il regista di origini indiane decide allora di spostare in blocco la questione teorica dal terzo al secondo atto, facendone in sostanza la materia centrale dello script, ovvero il movente della “ricerca” del personaggio di Sarah Paulson. Così Glass diventa un film iper-dialogato, spesso basicamente teatrale (tra l’altro le interpretazioni di McAvoy, in originale, sono da antologia della commedia in maschera) e a tratti molto didascalico, pure un po’ troppo. 

Niente qui avviene su un piano realistico, e la scrittura – e soprattutto la solita, straordinaria, messa in scena – lo ribadiscono di continuo, tanto che la caccia ai “buchi logici” dello script a cui sto assistendo (addirittura il problema sarebbe che di notte nel manicomio gira una sola guardia: ma pensa te, tutto il resto è così letterale!), mi lascia basito.
Il manicomio è lo spazio mentale che Shyamalan ci chiede di condividere, per ospitare i personaggi e muovere – e discutere – il confine tra fantasy e thriller; per camminare in bilico su quel confine, che riguarda contemporaneamente la loro “esistenza” e la nostra percezione.

In modo ancora più semplice, si può pensare il manicomio come un palco teatrale (ripensate a quante inquadrature sono frontali nel film) in cui le scenografie salgono e scendono tra le quinte, contribuendo all’effetto drammatico ma richiedendo sempre la sospensione dell’incredulità. Un parallelo che è particolarmente chiaro nella scena della seduta psicanalitica dentro la sala (rosa…), dove i tre protagonisti raggiungono la massima trasparenza e si palesano come eroi in cerca d’autore, cioè di qualcuno – regista o spettatore – che decida della loro natura (accadrà nel terzo atto). Sono del tutto passivi.

Ci sono molti momenti in cui questo saltellare tra i due territori (cioè dentro e fuori il cinema di supereroi e ai due lati dell’identità dei protagonisti) è mostrato con grande eleganza, riscattando il film dalla sua presunzione didattica.
Per dirne tre: quando il personaggio di Bruce Willis viene “neutralizzato” la prima volta dall’acqua, nel manicomio, e noi vediamo solo il serbatoio che si vuota, dall’esterno della struttura. Entrambe le volte che l’eroe e il villain si affrontano a mani nude, e la camera evita di inscenare una estenuante scazzottata tra corpi indistruttibili (forse il luogo comune più abusato del canone Marvel e DC) preferendo delle bizzarre soggettive, che azzerano la corrispondenza tra azione immaginata e azione percepita.

E poi proprio alla fine (spoiler), quando l’atteso – e promesso – scontro finale in cima a un grattacielo viene sostanzialmente rimpiazzato da una rissa in cortile (e non venitemi a dire che è un modo per fare di necessità di budget virtù, o per non gravare sul fisico indebolito dagli anni di Willis: è anche quello, ovviamente, ma chissenefrega).
Il tutto in un’opera che si conclude (spoilerone) con la morte brusca, ingloriosa e in pratica fatta di nulla (una pallottola, una pozzanghera, una spinta) dei tre personaggi principali…

Lungi dall’essere un film perfetto e perfettamente equilibrato (gli ultimi cinque minuti sono una mezza catastrofe), Glass è la cartina tornasole dei due film che lo hanno preceduto in trilogia e un’affascinante cinecomic “in negativo” (la parola, non l’azione; il piccolo, non il grande; la morte, non l’immortalità; la presunzione di irrealtà, non l’iperrealismo Marvel): in pratica spende con Unbreakable e Split lo stesso mestiere che Lady in the Water spendeva con i primi lavori di grande successo del suo autore. E come quello, è un ottimo film.

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