Far East Film Festival 2020, le recensioni. Quarta parte

Chiudiamo le nostre recensioni della rassegna con cinque ultimi titoli: i migliori e più sorprendenti sono il coming of age filippino Edward e l'horror malese Soul

Romance Doll al Far East Film Festival 2020

Si è chiuso il ventiduesimo Far East Film Festival di Udine, edizione che si è svolta integralmente online. Oltre al film vincitore Better Days, cui abbiamo dedicato un focus a parte (qui trovate la nostra recensione), chiudiamo il nostro sguardo sul Far East di quest’anno con la recensioni di altri cinque titoli tra quelli proposti all’interno di un cartellone che, come d’abitudine, restituisce delle molte direzioni del cinema orientale contemporaneo (quello popolare in primis). Ci dedichiamo in questo caso a film delle cinematografie maggioritarie, ovviamente Corea del Sud e Giappone, ma anche a due paesi che fin qui non avevamo affrontato come Malesia e Filippine e che regalano, a questo giro, le migliori sorprese (e c’è spazio pure per il film peggiore del festival tra quelli che abbiamo visto).

LUCKY CHAN-SIL (Corea del Sud, 2019)
di Kim Kyoung Hee
con Yoo-ram Bae, Mal-Geum Kang, Young-min Kim (II), Seung-ah Yoon e Yuh Jung Youn
drammatico
voto: 2/5

La produttrice cinematografica Chan-sil, ritrovatasi disoccupata, inizia a lavorare come donna delle pulizie in casa di una donna: lì conosce un giovane che, per sbarcare il lunario, fa l’insegnante di francese, ma prima era un regista di corti. Tralasciando il fatto che la coincidenza di partenza è qualcosa cui si fa fatica a credere tanto è forzata, si tratta di una di quelle ronde sentimentali impalpabili dove il cinema è orizzonte e misura di tutto (ma proprio tutto) e lo sguardo, incapace di andare oltre le proprie ossessioni ombelicali sui fantasmi della celluloide che fu, ne esce miope per eccesso di ottuso zelo cinefilo. Il modello è il connazionale Hong Sang-soo (del quale la regista è produttrice), ma la cosa migliore sono i paesaggi autunnali.

ROMANCE DOLL (Giappone, 2020)
di Tanada Yuki
con Yu Aoi, Kenta Hamano, Kitarô (II), Toko Miura, Kôji Ohkura, Issei Takahashi, Pierre Taki e Eri Watanabe
sentimentale
voto: 2/5

Nella fabbrica di sex dolls dove lavora Tetsuo, la modella Sonoko viene ingaggiata per posare nuda a scopi medici. Il ragazzo non svela qual è il vero obiettivo della sua attività, il sentimento affiora, gli equilibri precipitano vertiginosamente. Quello della regista Tanada Yuki, anche autrice del romanzo di partenza, è, nelle premesse, una sorta di strambo incrocio tra il fluviale La bella scontrosa di Rivette col compianto Michel Piccoli e il cinema di Shin’ya Tsukamoto, del quale il nome del protagonista evoca il film più celebre. Mancano però tanto l’erotismo torbido ma puntiglioso del primo quanto la sessualità post-umana del secondo: gli amplessi, più inutilmente patinati che respingenti, non turbano né eccitano, gli ulteriori riferimenti a Kitano sono tendenziosi e sorpassati e quando si scivola pure nel mélo con malattia si alza un po’ bandiera bianca.

EDWARD (Filippine, 2019)
di Thop Nazareno
con Louise Abuel, Ella Cruz, Dido De La Paz, Elijah Canlas e Manuel Chua
commedia
voto: 3/5

L’Edward del titolo è un adolescente che vive in ospedale, al capezzale del padre. Stare tra le corsie è per lui una (paradossale) arena ludica, ma l’arrivo di una coetanea scombussolerà i suoi equilibri. Questo piccolo film filippino è un esempio virtuoso di come la commedia migliore, quella fatta bene che da noi sembra sempre uno strano e introvabile animale mitologico, sia anzitutto lo specchio di una socialità cui le maglie rigide della cronaca non sempre sanno dare un nome. Qui ad esempio c’è uno scenario sociale drammatico – la cappa degli ospedali filippini senza mezzi, e quasi senza ventilatori – riscattato da un occhio che tiene insieme il grottesco, una bella cura formale (non minima, ma non per questo pedante), il coming of age. E pazienza, alla luce di tanto cuore, se la love story adolescenziale si concede qualche patetismo di troppo e fa un po’ Braccialetti rossi.

SOUL (Malesia, 2020)
di Emir Ezwan
con Farah Ahmad, Mhia Farhana, Harith Haziq, June Lojong, Namron e Putri Qaseh
drammatico
voto: 3,5/5

Una presenza misteriosa abita nella giungla, minacciando una comunità: una madre single con dei figli a carico, degli spiriti demoniaci in agguato, ma soprattutto una ragazza smarrita che porterà con sé orrore e distruzione. Uno di quegli esordi in cui il talento si misura soprattutto nella dose di personalità sprigionata a partire da una cassetta degli attrezzi ampiamente consolidata. L’horror folklorico scomodato non è diverso da tanti esempi analoghi, eppure i movimenti di macchina parlano la lingua dell’orrore più selvaggio, le musiche non sbagliano un colpo, il sangue in scena ha il colore (e la consistenza) reale delle viscere. E le paure dello spettatore, con tutto questo mestiere, non possono che abitare zone analoghe.

VERTIGO (Corea del Sud, 2019)
di Jeon Gye-soo
con Chun Woo-hee, Yoo Teo e Jeong Jae-kwang
drammatico
voto: 1/5

Se Young è una ragazza di trent’anni che soffre di vertigine sebbene lavori in un grattacielo. Ha un cattivo rapporto con la madre e una storia d’amore con un collega che non vuole uscire allo scoperto. Quando dalla finestra vede un lavavetri, però, tutto cambia. Se il titolo di questo orrendo mélo coreano non nasconde certo le sue ambizioni dietro un dito e scomoda perfino Hitchcock, il resto, sempre pronto a scalare il grattacielo del ridicolo, è ancora peggio: un’overdose impresentabile di dissolvenze incrociate, ombre malinconiche, ralenti, promesse d’infelicità e maledettismo un tanto al chilo. Un perverso kolossal del peggio (del peggio) del poraccismo d’autore più volgare, un po’ Antonioni e un po’ David Guetta, che si spaccia anche per “denuncia sociale”: il cinema arthouse in versione scemo di guerra.

Nella foto: Romance Doll

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