Da un lato c’è la promessa sposa di Watson, Mary Mortsan (Amanda Abbington, compagna di Martin Freeman anche nella vita), personaggio femminile assolutamente adorabile e, soprattutto, lontano dagli stereotipi di genere e persino dal modo in cui Conan Doyle l’aveva immaginata. È in grado di tenere testa a Sherlock, capisce il marito e ne anticipa i pensieri, non svolge il classico ruolo della “moglie che trascina il marito nella routine” ma anzi fa di tutto per farlo sentire vivo – tutto in vista della rivelazione finale.
Dall’altro c’è Magnussen (Lars Mikkelsen), un villain come poteva esistere solo in Sherlock. Il ragionamento di Gatiss e Moffat, è chiaro: vista la grandezza del defunto (?) Moriarty, è inutile provare a replicarlo. E quindi date il benvenuto al cattivo meno cattivo di sempre: Magnussen non è crudele o aggressivo, non è neanche una minaccia vera e propria (lo stesso Mycroft Holmes diffida il fratello dall’indagare su colui che di fatto è “solo” un potentissimo uomo d’affari), ma è emanazione e incarnazione dell’onnipresenza dei media e della loro capacità di piegare la realtà alle proprie esigenze – anche assassinando la libertà personale di ognuno, e sempre con la calma e la freddezza di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico. Non c’è nobiltà in Magnussen, che è intelligente quanto Sherlock ma privo dei suoi scrupoli: è un villain freddo, viscido e disgustoso, che conosce il suo massimo trionfo nella scena in cui si reca a Baker Street, prende possesso del salotto di casa Sherlock e piscia nel falò. Come a dire: «Posso fare quello che voglio perché controllo tutte le informazioni del mondo, e questo fuocherello è il simbolo della vostra libertà».
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