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Aladdin: la recensione del live action Disney con Will Smith

La versione di Guy Ritchie è fedele all'originale senza essere però una copia in carta carbone, che coinvolge grazie al ritmo e alla simpatia di Smith

Aladdin: la recensione del live action Disney con Will Smith

La versione di Guy Ritchie è fedele all'originale senza essere però una copia in carta carbone, che coinvolge grazie al ritmo e alla simpatia di Smith

Aladdin: la recensione

La Disney sta sfornando versioni live action con attori in carne ed ossa dei suoi classici dell’animazione uno dopo l’altro: un nuovo Alice nel Paese delle meraviglie, un nuovo Cenerentola, un nuovo La bella addormentata nel bosco, un nuovo Libro della giungla… a cui seguiranno presto Il re leone, Mulan e così via.
Se vi siete chiesti come mai, sappiate che la questione è complessa (qui potete leggere l’approfondimento in merito) e mixa ragioni di botteghino e possesso dei copyright. 
Aladdin, al cinema da oggi, rientra nella categoria e – come quelli usciti prima di lui – è molto fedele, quasi pedissequo, nel ripercorrere le vicende dei suoi alter ego animati. Aladdin è un ragazzo che vive alla giornata insieme alla sua scimmietta Abu. Un giorno, mentre scappa dalle guardie per un furtarello al mercato di Agrabah, si imbatte nella principessa Jasmine – fuggita da palazzo -, e la salva da una brutta situazione, grazie a una fuga rocambolesca. Per il ragazzo è amore a prima vista verso quella che gli si è presentata come l’ancella della figlia del sultano, ma la cui vera identità gli verrà svelata dal malvagio visir Jafar, che lo coinvolgerà nei suoi piani con la promessa di un grande tesoro in cambio del recupero di una misteriosa lampada dalla Caverna delle meraviglie. La lampada e il Genio contenuto in essa diventeranno proprietà di Aladdin, che ovviamente esprimerà il desiderio di diventare un principe molto ricco, invece che uno straccione, per poter essere degno di Jasmine. Un inganno che verrà presto smascherato da Jafar stesso, stufo di essere il numero 2 e pronto a soppiantare il sultano in carica a qualunque costo.

Guy Ritchie è bravo nel restituire al film l’atmosfera esotica e ammaliante da Mille e una notte del cartoon originale. E giova al dinamismo della storia la sua regia briosa, specie nella scena della fuga tra le strade di Agrabah, in cui il protagonista Mena Massoud dà prova di essere un esperto di parkour e danza acrobatica. Ma è sicuramente la presenza di un attore d’esperienza come Will Smith, che qui mescola la simpatia al passato da rapper snodato e a una CGI pirotecnica – per dar vita a un Genio che non viene schiacciato dal confronto con l’indimenticabile Robin Williams della versione originale (da noi doppiato dal mitico Gigi Proietti) – a regalare i momenti migliori del film. Impresa non data così per scontata dai molti che, all’uscita del primo trailer, avevano gridato allo scandalo in Rete.  

Nella caccia alle differenze, che nasce spontanea quando ci si confronta con la nuova edizione di un classico, la più grande che si rileva è la svolta di Jasmine, determinatissima a diventare il nuovo sultano. Un’impennata femminista figlia del #MeToo, che dà vita a una versione fin troppo emancipata della giovane donna per quei luoghi e quei tempi, che vuole però lanciare un messaggio ben preciso, ovvero dare spazio alla voce della donna anche in politica e non tentare di zittirla, come farà il perfido Jafar.

Peccato si sia scelta un’attrice poco espressiva come Naomi Scott per il ruolo, sicuramente molto bella, ma non intensa quanto la versione animata e pertanto poco credibile nei panni dell’accesa pasionaria. Il miscasting, però, si fa totale con Jafar, il cui inteprete Marwan Kenzari non ha un grammo del carisma del suo alter ego animato. 

Al netto di tutti i pregiudizi naturali e spontanei quando ci si confronta con un classico molto amato, Aladdin è una versione indubbiamente fedele all’originale per la simpatia, l’atmosfera favolistica e il romance di fondo, e non una copia realizzata con la carta carbone. Del suo prototipo ha colto l’essenza, ovvero il dito puntato verso la maggiore importanza della ricchezza interiore (il “diamante grezzo” vagheggiato dallo spirito della Caverna delle Meraviglie) rispetto a quella esteriore. Il giovane protagonista, infatti, compie un viaggio alla scoperta delle sue virtù, in particolare dell’onestà e dell’autenticità, rifuggendo gli incantesimi e i trucchi, ma soprattutto gli inganni e le maschere con cui avrebbe voluto fingersi migliore, per andare all’essenza di ciò che è, senza vergogna. 

 

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