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American Assassin: la piaga del terrorismo islamico e Michael Keaton mentore feroce. La recensione

Da uno dei registi di Homeland, Dexter e Six Feet Under un thriller d'azione che affronta lo scenario delle minacce globali di oggi

American Assassin: la piaga del terrorismo islamico e Michael Keaton mentore feroce. La recensione

Da uno dei registi di Homeland, Dexter e Six Feet Under un thriller d'azione che affronta lo scenario delle minacce globali di oggi

Michael Keaton in American Assassin

Al centro di una serie di romanzi americani, Mitch Rapp (il Dylan O’Brien della saga di Maze Runner) è un ragazzo come tanti altri, uno studente divenuto una macchina da guerra al soldo della CIA solo in seguito a una tragedia personale: la sua ragazza ha infatti perso la vita per mano del terrorismo islamico. La sua sete di vendetta è implacabile e il suo fuoco sacro, lontano da qualsiasi lucidità, è ciò che lo tiene in piedi, alienato eppure saldamente ancorato al mondo, alle sue dinamiche fluide e spietate.

American Assassin è un prodotto d’azione d’ordinanza, tratto da dei libri che hanno avuto un riscontro positivo e che tuttavia non hanno trovato un’immediata traduzione al cinema, dove il progetto si è barcamenato farraginosamente e di sicuro stancamente, visto che Michael Cuesta, che ha lavorato alla serie Homeland, è il terzo e ultimo regista a legarsi all’operazione dopo dopo Jeffrey Nachmanoff ed Edward Zwick.

Come tanti film analoghi, a contare non è tanto ciò è che esposto in superficie, relativamente prevedibile a cominciare dal granitico e duro mentore Stan Hurley che ha il volto da Michael Keaton, quanto piuttosto gli elementi sintomatici di queste messe in scene, che nel mettere mano agi scenari politici, spionistici e bellici contemporanei rinnegano più o meno colpevolmente ogni complessità per ridurre tutto a un’esaltazione asettica e sempre problematica dei corpi.

Dietro quest’accrescimento costante delle fisicità, al servizio in questo caso di efficaci sequenze action, traspare infatti puntualmente il disagio identitario di personaggi a due dimensioni, che nella loro bidimensionalità raccontano una concezione del mondo in cui non esistono le sfumature ma solo e soltanto i buoni e i cattivi, divisi nella maniera più manichea possibile. Passati in rassegna in automatico proprio come le location, senza distinzione alcuna (Libia e la Virginia come massimi opposti, ma poi Istanbul, Varsavia, la Romania, Londra, Roma, dove fa capolino, oltre alle location più consuete e turistiche, anche il Corviale, storico “serpentone” residenziale famoso per il suo atavico abbandono).

Non a caso, dunque, l’addestramento del giovane protagonista è un assalto a nemici immateriali, tutti mentali (il cattivo di Taylor Kitsch si chiama Ghost…), cullati con la stessa ossessione strisciante per i propri avversari che l’America conosce benissimo, che il cinema ha frequentato più e più volte in tempi non sospetti e che oggi, nell’era di Donald Trump e Kim Jong-un, si conferma un modello culturale, nazionale, perfino esistenziale duro a morire. Anche al cinema, naturalmente, dove spesso e volentieri è proprio il genere duro e puro, privo di fronzoli e senza alcuna pretesa, alla stregua di American Assassin, a farsi portavoce di questa unilateralità d’immaginario senza redenzione alcuna.

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