American Hustle, la commedia umana si fa farsa: la nostra recensione del film di David O. Russell

Abbiamo visto in anteprima il nuovo film del regista di Il lato positivo e The Fighter: ecco il nostro parere

Come Il lato positivo e The Fighter prima di lui, American Hustle è un film costruito intorno a un concetto: la disfunzionalità dell’essere umano e la sua naturale tendenza verso il disastro, anche di fronte all’evidenza della tragedia imminente. L’uomo, dice da sempre David O. Russell, è incapace di accettare uno stato di quiete e, piuttosto che godersi uno status quo accettabile, preferisce puntare a qualcosa di più, diventando inevitabilmente artefice della propria rovina.

Al contrario di Il lato positivo e The Fighter, però, American Hustle rinuncia fin dalla prima sequenza (ci torneremo) al dramma, per inscenare, riveduta e corretta secondo i canoni della commedia umana, la storia di ABSCAM, la più grande operazione sotto copertura compiuta dall’FBI a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta; che nella realtà si concluse con l’arresto di una decina di uomini del Congresso americano, mentre nel film di Russell assume i contorni di una farsa grottesca in cui l’aspetto di maggior interesse non è quello legale ma quello (dis?)umano.

Si diceva della sequenza d’apertura: un Christian Bale ingrassato e irriconoscibile spende cinque minuti in favore di camera a sistemare il suo improbabile riporto, trasformando – con l’aiuto di extension e un po’ di colla – una pelata imbarazzante in una chioma selvaggia e aggressiva. È un esilarante pugno nello stomaco che detta le regole del gioco scelte da Russell: American Hustle è un film che parla di inganni e apparenze, della differenza tra ciò che è e ciò che appare, un incastro di doppi e tripli giochi popolato di quel genere di macchietta psicologicamente approfondita che ha fatto la fortuna del Woody Allen degli anni Settanta. Non sbaglia chi dice che si tratta di un film di pettinature:

• l’alopecia di Bale/Irving riflette il suo personaggio di affascinante truffatore: vende assicurazioni che non esistono, incassa i soldi, sparisce) che nasconde un cuore sotto lo strato di cinismo;

• i riccioli curatissimi e posticci di Bradley Cooper/Richie (l’agente dell’FBI che pizzica Irving e lo costringe a lavorare per lui in cambio della libertà) ne raccontano la personalità formalmente inattaccabile e integerrima e il sotteso strato di sadismo arrivista che ne guida le azioni;

• la chioma fluente e liscissima di Amy Adams/Sydney/Edith, bellezza stordente dalla doppia personalità, dama inglese per affari e bomba sexy americana per l’amante Irving, perde via via la sua forma per trasformarsi, entro la fine del film, dopo un flirt (vero? Falso? Concordato? Improvvisato) con Richie, dopo un litigio con Rosalyn (torneremo anche qui), in una selvaggia criniera rosso fuoco;

• l’elaborata impalcatura che sorregge i capelli di Jennifer Lawrence/Rosalyn, l’isterica e instabile moglie di Irving, è indicativo di una donna formalmente schiava delle convenzioni ma in realtà incontrollabile, egoista e crudele, emanazione diretta della Tiffany di Il lato positivo.

E questo, in fin dei conti, è quanto: importa poco raccontare i passaggi che portano due truffatori di bassa lega a trovarsi faccia a faccia con il più importante boss mafioso della Florida, né quanto malridotto esca da questo frullatore umano fatto di triangoli amorosi, tradimenti e giochi mentali l’unico personaggio sano e pienamente umano del film, il Carmine di Jeremy Renner, sindaco italoamericano di una città del New Jersey il cui unico scopo è fare del bene non a sé stesso, quanto alla sua gente. Errore fatale nel mondo egocentrico e autoriferito di American Hustle, dove quello che conta è prima di tutto sopravvivere, tirare avanti, vedere la luce del giorno dopo.

Isterico il film, isterico Russell, che alterna momenti per lui molto classici a omaggi a Quei bravi ragazzi, che non stacca mai la camera dai volti dei protagonisti, che tira fuori il meglio (il peggio) da quattro fuoriclasse e i cui unici errori stanno nella colonna sonora (infarcita di classici sfruttati fino alla nausea, tra cui quella A Horse with no Name che dopo Breaking Bad pensavamo di aver mandato in pensione) e in una certa autoindulgenza e autoreferenzialità di temi e ossessioni. Il rischio di ripetersi, soprattutto dopo aver dominato gli Oscar per due anni consecutivi, era forte; Russell lo schiva puntando su una confezione di bellezza stordente – per attenzione al dettaglio e ricostruzione di un periodo storico siamo dalle parti di una versione glam di Argo – e, soprattutto, come già scritto sopra, evitando di inscenare l’ennesima tragedia e puntando tutto sull’elemento grottesco e farsesco. C’è chi sostiene che così si perde di vista l’emozione, e che il nuovo film di Russell sarebbe poco più che un divertissement. Ci permettiamo di dissentire e anzi di proclamare American Hustle il più riuscito dei film del regista: dietro ogni clown, d’altronde, c’è un uomo che piange.

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