Due volte premio Oscar nello stesso anno, il 2006, quando stringeva sul palco dell’Academy la statuetta per la sceneggiatura di Crash-Contatto fisico, in quell’edizione anche miglior film. Una carriera dedicata al grande schermo, dietro la macchina da presa e come sceneggiatore, quando scriveva per Clint Eastwood Million Dollar Baby, Flags of our fathers e Lettere da Iwo Jima, e adattava Casino Royale al nuovo James Bond/Daniel Craig.
Dopo gli ultimi lavori, storie individuali come Nella valle di Elah e The Next Three Days, Paul Haggis porta al cinema Third Person, nelle sale dal 2 aprile, un racconto corale che, come in Crash, presenta storie che si intrecciano, questa volta impregnate di romanticismo, lontano dalle strade di Los Angeles e dal discorso razziale, per sondare il territorio imprendibile dell’amore, le sue possibilità e la sua natura.
Questo film ha un’anima benefica…
Sì, Third Person è per me l’occasione di promuovere qui in Italia, accanto alla Fondazione Francesca Rava, un progetto di aiuto per Haiti. Ci sono stato nel 2008, ancora in piena emergenza umanitaria e ho deciso che qualcosa andava fatta. L’anno dopo ho fondato la Artists for Peace and Justice, una non profit che vuole mettere in relazione la comunità di Hollywood con i luoghi dove più c’è bisogno, da allora ad Haiti abbiamo aiutato Padre Rick Frechette a costruire scuole nelle zone colpite e dare ai bambini assistenza.
Nel film c’è una sensibilità molto forte nei confronti dell’infanzia: non ci sono tanti bambini, ma vengono evocati spesso…
Esatto: quando ho scritto Third Person mi sono chiesto quali sono i costi di essere un artista e chi paga il prezzo del successo. Nel mio caso sono stati i miei figli: spesso non ho avuto tempo per loro e ho sentito come una responsabilità il fatto che spesso sia stato assente. Essere artisti è essere egoisti, è il nostro lavoro, la nostra carriera ci chiede di focalizzare la nostra attenzione: io lo faccio per loro, ma so che per essere al top devo lavorare tante ore e spesso la mia famiglia subisce questa distanza.
Con Third Person torna al racconto corale in cui diverse storie si intrecciano. Com’è nato il film?
C’è un tema portante, l’amore, che fa da fil rouge tra tutte le storie. Da un punto di vista narrativo, ho iniziato a pensare prima di tutto al personaggio di Liam Neeson, pensando che la storia sarebbe stata una sola, ma pian piano mi sono reso conto che stavo scrivendo tre love story: io odio quando succede, ma mi capita spessissimo che i personaggi che costruisco mi chiedano di andare dove vogliono loro e la storia prenda una forma diversa. A quel punto, ho voluto affrontare tre modi di amare una persona impossibile, un aspetto che ha un che di autobiografico. Mi sono chiesto: l’amore è trasformativo? Se credi in qualcosa o se credi in qualcuno che ti trascina, sì. È romantico, lo so…
La prima impressione che si ha guardando Third Person è di sentirsi spaesati: l’inizio è molto ritmato, succedono tantissime cose frammentate e i pezzi non combaciano. Per lo spettatore può essere una sfida?
Sono contento, è quello che volevo: sin dall’inizio ci sono cose che succedono che mixano le storie, forse stenti a vederle, ma sono come dei messaggi subliminali, delle transizioni che creano un’unica storia anche se i racconti singoli sono più di uno. Quando scrivi è come sognare, un flusso che ti porta in posti e luoghi che non ti aspetti, dove ti conducono i personaggi, poi ti svegli e torni a sistemare tutto. Nel mio piccolo ho sentito di avere un grande debito con i registi italiani degli anni ’60: oggi non facciamo film come i loro perché l’audience –almeno quella americana- vuole che la storia venga spiegata, vuole più risposte che domande. Per Third Person ho sentito che dovevo partire con quello spirito interrogativo, perchè lo spettatore veda cose che solitamente ignora.
A proposito di Italia, tra le location c’era anche Roma.
Sì, e un po’ ho timore che vedendo rappresentata la loro città gli italiani lo odino! Alla fine racconto di un americano ignorante, il personaggio di Adrien Brody, che guarda l’Italia con gli occhi dello straniero. In un certo senso ho pensato a quando ho portato qui mio padre per la prima volta: continuava a cercare le cose americane e a dire “ma è tutto vecchio! Dov’è il cibo americano?”.
Eppure la storia ambientata in Italia ha un aspetto così realistico: la protagonista è una zingara, sono rimasta stupita dalla sua rappresentazione secondo i nostri stereotipi.
Quello è vero, mi sono documentato molto per il personaggio di Moran Atias. Ero qua in Italia a presentare Nella Valle di Elah e ho letto un dibattito sugli zingari, perchè in quel periodo Tornatore era stato aggredito e la colpa era caduta su di loro. Mi sono chiesto cosa volesse dire essere stigmatizzato e ho pensato che avrei voluto smentire questo pregiudizio. Quello della zingara è stato il personaggio che ho creato per primo, poi Riccardo Scamarcio è venuto da me e mi ha chiesto una parte, voleva fare il villain ma io gli ho detto che gli avrei dato un ruolo comico, per riprendere, almeno nelle intenzioni, il gusto per l’assurdo della commedia all’italiana.
Nel film c’è un cast all-star, come lo ha scelto?
Ho iniziato con Liam Neeson, perché volevo qualcuno di cui fidarmi ciecamente: ha un fascino straordinario e l’ho amato per quello che è riuscito a fare. Ha 60 anni e nel film è uno scrittore che ha una relazione con una ventenne, Olivia Wilde, ma riesce comunque a creare una sintonia credibile con lei, una chimica che mi ha stupito. Anche le scene di sesso e di nudo dovevano essere naturali, e grazie a loro lo sono state. Mila Kunis mi sembrava sbagliata: era troppo bella e troppo giovane, ma lei ha voluto che ci incontrassimo e mi ha convinto, era un uccellino ferito, proprio il ruolo che cercavo. James Franco lo volevo da sempre: a lui è bastato leggere la sceneggiatura per accettare. Kim Basinger mi è stata consigliata dal mio produttore, mi è bastata una telefonata. Moran Atias mi ha aiutato a sviluppare la storia, non mi piaceva, ma l’ho scelta lo stesso perché mi capita che ai provini non si dia il massimo: avevo visto il suo lavoro sul set di Crash e sapevo che era solo nervosa. Per la parte della zingara ha lavorato sull’accento in modo incredibile. Per Adrien Brody uguale: sentivo fosse troppo sofisticato e affascinante per la parte dell’imbroglione. Anche lì i miei preconcetti sono stati smentiti!
Adesso cosa la aspetta?
Ho appena finito di girare una miniserie, Show me a Hero per la HBO. Il titolo è una frase di Fitzgerald “show me a hero and I’ll write you a tragedy”. Sarà una storia vera, ambientata nello stato di New York, a Yonkers, dal 1987 al 1993 quando un sindaco viene costretto a costruire unità abitative per disagiati nei pressi della comunità bianca, causando episodi di razzismo. In generale, nei miei progetti sono fermamente intenzionato a mantenermi indipendente: in America è sempre più difficile trovare fondi, si cerca sempre tanta pubblicità, ma grazie al cielo sono sempre riuscito a mantenermi fedele a me stesso. Lavorare per la tv e per le serie, inoltre, mi ha dato la possibilità di portare nuova linfa. Credo che questa interazione sia un bene per entrambe i media: per fortuna abbiamo superato quei pregiudizi che una volta bollavano un attore o un regista se passava dall’una all’altra parte della barricata.
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