Avatar – La Via dell’Acqua: il sequel di James Cameron è un’immersione spettacolare e spirituale senza precedenti. La recensione

Ambientato più di dieci anni dopo gli eventi del primo film, Avatar - La Via dell’Acqua, da oggi finalmente al cinema, inizia a raccontare la storia della famiglia Sully (Jake, Neytiri e i loro figli), del pericolo che li segue, di dove sono disposti ad arrivare per tenersi al sicuro a vicenda, delle battaglie che combattono per rimanere in vita e delle tragedie che affrontano. E l'esperienza-mondo offerta dal regista di Titanic raggiunge nuove vette di empatia ed eloquenza, spessore e splendore: cercatelo nella sala migliore possibile, con lo schermo più grande possibile (e ovviamente in 3D)

Avatar - La Via dell'Acqua
PANORAMICA
Regia (5)
Interpretazioni (3)
Sceneggiatura (3)
Fotografia (4.5)
Montaggio (4.5)
Colonna sonora (3.5)

Sono passati tredici lunghi anni dal primo Avatar, il blockbuster con cui James Cameron nel 2009 dotò il cinema di un nuovo orizzonte tecnologico e di ambizioni sconfinate, in grado di creare da zero un universo, quello del pianeta Pandora, e di immaginare un modello di cinema commerciale capace di parlare su scala globale, da un punto di vista tanto spettacolare quanto antropologico, filosofico e industriale (ancora oggi è primatista nella classifica dei maggiori incassi di tutti i tempi, con i suoi 2,9 miliardi). 

Il primo dei sequel messi in cantiere dal regista, Avatar – La Via dell’Acqua, spezza la lunga attesa riannodandosi direttamente al primo film e al contempo ampliandolo a dismisura. Come sempre con Cameron, il valore dell’esperienza cinematografica è totale e incalcolabile: il 3D, che all’epoca del capostipite lanciò una moda tanto passeggera quanto volatile, torna di prepotenza e con assoluto risalto nel seguito, dando vita a dettagli e fondali di incomparabile bellezza, tanto da risultare parte integrante e non negoziabile di ogni visione del film che si rispetti e che non risulti fatalmente depotenziata del suo splendore. Lo stesso dicasi per la scelta di girare in gran parte in high frame rate, cioè a 48 fotogrammi al secondo anziché gli usuali 24.

Ambientato più di dieci anni dopo gli eventi del primo film, Avatar – La Via dell’Acqua inizia a raccontare la storia della famiglia Sully (Jake, Neytiri e i loro figli), del pericolo che li segue, di dove sono disposti ad arrivare per tenersi al sicuro a vicenda, delle battaglie che combattono per rimanere in vita e delle tragedie che affrontano. La prima ora ci riporta nelle foreste di Pandora, con un Jake Sully (Sam Worthington) ormai pienamente integrato in veste di pater familias, ed è perfino interlocutoria e ridondante rispetto al predecessore, perché sembra intenzionata a ribadire lo statuto e lo stupore già elaborati – dopotutto sono passati quasi tre lustri e un ripasso appariva forse obbligato – che ad accendere effettivamente il secondo capitolo. 

Poi però, dopo aver suggerito quanto ogni equilibrio e serenità siano purtroppo condannati a una fugace precarietà, il sequel, e con lui l’acqua, arrivano davvero e non ce n’è più per nessuno. Cameron si conferma infatti uno dei registi americani più in grado di lavorare su un’idea di mito ancestrale e primordiale, con le forze selvagge che regolano l’esistenza stessa degli uomini e degli elementi naturali che li ospitano. Anche in un contesto alieno, l’essenza dell’umano è il cuore di tutto e qui più che mai è la famiglia, e il suo restare insieme, a vincolare ogni tipo di confronto, conforto e approdo (e il bello è che tutto ciò, nell’orizzonte travolgente del film, appare davvero come un’intima necessità più che come un mero marchingegno retorico e favolistico). 

In Avatar 2 la coppia composta Jake Sully, ora a capo dei Na’vi, e Neytiri (Zoe Saldana) ha avuto tre figli, Neteyam, Lo’ak e Tuk, ha adottato Kiri (Sigourney Weaver), nata miracolosamente – la sua genesi viene ritenuta un vero prodigio – dall’avatar in coma della dottoressa Grace Augustine, e Spider, ragazzo umano rimasto su Pandora, figlio del marine Miles Quaritch (Stephen Lang), villain ancora deciso a saziare la sua sete di sangue nei riguardi Jake. Nel momento in cui la loro quiete viene minacciata, si rifugiano tra i Metkayina, abitanti della barriera corallina, di fatto “il popolo dell’acqua” tanto quanto i Na’vi lo sono dell’aria.

«L’acqua non ha inizio o fine. Il mare è intorno a te e dentro di te. Il mare è la tua casa prima della tua. L’acqua connette tutte le cose: la vita alla morte, il buio alla luce», sono soliti dire, con una visione panica del creato che guarda anche all’Oriente e fa di Avatar – La Via dell’Acqua un tentpole in grado di parlare anche all’altro emisfero globale con universalismo oggi forse irripetibile, Cameron a parte. Con queste premesse, Avatar 2 si configura come un film tutto incentrato sulla necessaria trasmutazione delle cose, sull’urgenza di accettare che qualcosa deve morire perché qualcos’altro possa nascere, sull’impellenza di adattarsi per sopravvivere, di rinunciare alla propria comfort zone per abbracciare la sostenibilità. 

La famiglia Sully passa dall’aria e dalla terra all’acqua per sperimentare una nuova idea – necessariamente fluida – di se stessa e di abitabilità, ritrovandosi a dover imparare per la prima volta a cavalcare creature marine o anche solo semplicemente a guardarle negli occhi di sguincio, accettandone e comprendendone i traumi (i Tulkun, cetacei marini di Pandora, sono la new entry più da batticuore di questo sequel), a respirare sott’acqua, a fondersi in ciò che per definizione è liquido e mutevole. 

Una circolarità che passa ovviamente dalla natura e dagli elementi comuni a ogni cosmogonia, ma non è difficile vedere come il film suggerisca che sia il caso di estenderla anche al modo in cui intendiamo i legami tra gli esseri umani e l’essenza spirituale delle tracce che lasciamo, sul pianeta Terra e sui nostri simili con cui interagiamo ogni giorno. Non a caso, in Avatar – La Via dell’Acqua, la paternità è una forma di protezione dura e intransigente («Un padre protegge. È ciò che gli dà senso»), che dovrà sciogliersi verso l’accettazione della condizione più fragile e cangiante dell’essere figli, per poter trovare il balsamo della dolcezza oltre le catene dell’autorevolezza, per uscire dall’apnea delle proprie responsabilità, per imparare ad ascoltare il proprio battito e respiro.

C’è davvero tantissimo dentro Avatar – La Via dell’Acqua, un film da vedere necessariamente nella sala migliore possibile, sullo schermo più grande possibile: rispetto ad Avatar la metafora ecologista e ambientalista, che in confronto nel primo film era più sottesa, si libera con struggente e sconfinata libertà, tanto da suggerire l’idea che l’apertura del franchise fosse solo una piattaforma iniziale da cui prendere la rincorsa (lunghissima, bisogna dirlo) per successive fantasmagorie ancora più titaniche. Il finale de La Via dell’Acqua, davvero impressionante per nitore e potenza, diventa titanico anche nel senso di Titanic, e ingloba anche l’elaborazione catastrofica del sottovalutassimo The Abyss: siamo pur sempre in un film di James Cameron, dopotutto.

C’è anche tanto di Moby Dick e naturalmente si parla anche in filigrana (ma nemmeno troppo) del genocidio dei nativi americani, di anti-militarismo esibito (senza per questo nascondere quanto la guerra, quella vera, sia una faccenda dannatamente viscida e terrena), di energia ricevuta in prestito e che occorrerebbe restituire. Eppure, nella semplicità classica e archetipica con cui il sequel di Avatar è destinato a parlare al mondo, nonostante una basica contrapposizione tra buoni e cattivi e dialoghi all’insegna della più eloquente e divulgativa linearità, non c’è alcunché di didascalico, nessuno retorica e perfino nessun manicheismo (anche i tanti monologhi “mistici” in voice-over non somigliano mai alla stucchevole deriva New Age dei film di Terrence Malick, ed è a conti fatti un vero miracolo).

Di mezzo, a fare tutta la differenza del mondo, c’è il Cinema, e le sue infinite vie.

Foto: 20th Century Studios, Lightstorm Entertainment

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