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Avventura e passione al Grand Budapest Hotel: la recensione del nuovo film di Wes Anderson

L'autore di Moonrise Kingdom firma il suo film più affascinante e compatto. Personaggi meravigliosi, con un Ralph Fiennes in stato di grazia

Avventura e passione al Grand Budapest Hotel: la recensione del nuovo film di Wes Anderson

L'autore di Moonrise Kingdom firma il suo film più affascinante e compatto. Personaggi meravigliosi, con un Ralph Fiennes in stato di grazia

PREMESSA 1: la geometria
Qualche tempo fa circolava sui social network un video sulle inquadrature simmetriche nei film di Wes Anderson. Il punto naturalmente non è la simmetria (l’uso degli assi di simmetria per la costruzione delle inquadrature è vecchio come il cinema; anzi, gli è intrinseco) ma la frontalità. Le scenografie sono spesso piatte come cartoncino, si estendono orizzontalmente; i personaggi sono spesso rivolti alla macchina da presa, l’orlo del forogramma diventa l’orlo di un proscenio immaginario. Si genera così un senso di straniamento che rimanda al teatro o alle tavole dei fumetti, e più in esteso a un certo modernariato ludico, al collezionismo. L’inquadratura è un piano cartesiano (i due assi incrociati, con una freccia alla fine, che vi facevano disperare al liceo) e la macchina da presa si muove da destra a sinistra (carrellata), o dall’alto in basso (carrellata verticale), appunto secondo gli assi. Oppure zooma, il che a ben vedere corrisponderebbe al terzo asse, al movimento lungo la profondità. Unica variazione, comunque geometrica, le panoramiche a 90 o 180 gradi (cioè movimenti semicircolari dell’obiettivo). L’irritazione, la noia, per i non amanti di Anderson, deriva di solito dalla rigidità estrema, e sempre reiterata, dello schema.

PREMESSA 2: la stilizzazione
L’estrema stilizzazione per qualcuno è un problema, e suscita polemiche già emerse, ad esempio, per i film di Spike Jonze, specie dopo Her. “Cinema da hipster” o “per hipster” o “hipster” e basta, è la scemenza che circola con maggiore insistenza. Certo, vale la pena chiedersi quale sia la permeabilità al mondo di questo cinema, cioè quanto il mondo influenzi le opere di Anderson, e quanto viceversa Anderson sia interessato a elaborare con i suoi film un pensiero sul mondo. Parliamo di lavori estremamente personali, una specie di autobiografia emotiva che si prolunga titolo dopo titolo. Mi colpisce, ad esempio, come i suoi personaggi amino i rifugi, come l’esigenza di un riparo – anche nella sua accezione più infantile e giocosa – sia palpabile (le cabine dei treni, le tende da campeggio, le stanze d’albergo, le camerette dal soffitto basso, i letti a castello, la tana di Mr.Fox) e in pratica i suoi film si trasformino proprio in questo, in un nascondiglio (quando non lo fanno si rimane esposti agli elementi, come nel finale di Moonrise Kingdom). Che ruolo assegnare a un cinema così ego-riferito, così dipendente dall’approvazione dello spettatore?

THE GRAND BUDAPEST HOTEL
La risposta all’ultima domanda datela voi: è possibile farsela alla fine di qualsiasi film di Anderson (o Jonze o Ayode, o Tsai Ming-liang se è per questo) e ognuno ha la sua opinione. A me interessa invece considerare che tipo di film sia The Grand Budapest Hotel, posto che è un film di Wes Anderson. E qui vanno date le prime coordinate. Romanzone d’appendice ambientato in un immaginario paese est europeo tra le due Guerre Mondiali, racconta l’amicizia tra il concierge di un albergo d’alta montagna, Gustave H (Ralph Fiennes), e un giovane fattorino indiano, Zero Moustafa. Gustave eredita un dipinto di grande valore da un’anziana nobildonna (Tilda Swinton, cammuffatissima, ormai abbonata ai trasformismi), ma i figli gli mettono i bastoni tra le ruote, accusandolo dell’omicidio della madre. Finisce in prigione, evade, cerca di smascherare il vero colpevole. Il tutto con l’aiuto di Zero e della sua giovane amante (Saoirse Ronan), pasticcera-prodigio dell’albergo. Ci sono poi diversi piani temporali, in particolare un doppio flashback – la storia è contenuta in un romanzo e il romanzo è l’esito dell’incontro dell’autore con uno Zero ormai adulto nell’hotel del titolo – ad aumentare l’impostazione letteraria (metanarrativa) dell’opera, che è esplicitamente dedicata allo scrittore Stefan Zweig.

Rispetto ai precedenti di Anderson, il film è più compatto, avventuroso e appassionante. Il rapporto di dipendenza e conflittualità (romantica) tra mentore e allievo, centrale fin da Rushmore, qui acquisisce un’infinita di sfumature. Ralph Fiennes è straordinario: effemminato ma deciso, irritabile ma protettivo, un attimo prima idealista e sognatore (“terrò quel quadro davanti al mio letto per il resto dei miei giorni”), un attimo dopo pratico fin quasi al cinismo (“lo vendiamo immediatamente e ci trasferiamo sulla costa maltese”). Procede per paradossi come i personaggi più belli (il miliardario triste, il galeotto intellettuale, il gigante dal cuore d’oro). Insegna al ragazzo l’amore per le donne e la letteratura, l’edonismo consapevole; il rispetto per la disciplina professionale; ma anche il rifiuto drastico delle prepotenze fascisteggianti e delle pretese ingiuste. Cui oppone, se necessario, furto, violenza, omicidio (!).
C’è quindi un racconto, c’è un intreccio che si segue con curiosità, ci sono personaggi meravigliosamente scritti e svolti. E c’è un’idea politica chiara, politica dell’immagine e politica in senso stretto.
Mancano, questo sì, le punte romantiche de I Tenenbaum o Moonrise Kingdom. Siamo più dalle parti de Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Cioè – a parere di chi scrive – del suo film migliore.

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