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Berlino 2019. La maschera del mostro in Der Goldene Handschuh di Fatih Akin

Berlino 2019. La maschera del mostro in Der Goldene Handschuh di Fatih Akin

Fritz “Fiete” Honka commette il suo primo omicidio, quello di una prostituta, nel 1970, ma, a parte un articolo sul giornale quando alcuni pezzi del cadavere vengono ritrovati, nessuno si occupa di scoprire nulla. E così Honka continua ad uccidere, pescando le sue vittime tra le donne sole ed emarginate che come lui frequentano il bar “Il Guanto d’oro” (il Goldene Handshuh del titolo originale) nel quartiere a luci rosse di Amburgo. Donne che scompaiono nel disinteresse dell’autorità per essere fatte a pezzi da un serial killer nemmeno particolarmente astuto, un uomo disturbato che si muove nei bassifondi di una Amburgo squallida e senza sole.

È un vero e proprio horror il film che Fatih Akin (Orso d’Oro per Gegen die Wand nel 2004) presenta con tanto di divieto ai minori di 18 anni che pare lo abbia reso un eroe agli occhi del figlio 13enne appassionato di film di genere…

«Sono un grande fan del romanzo di Heinz Strunk – a cui il film si ispira, anche se l’autore non ha partecipato alla scrittura della sceneggiatura- soprattutto perché in qualche modo l’autore è riuscito non solo a dare dignità alle vittime di Honka, ma anche, per quanto possibile, allo stesso assassino. Ed è la stessa cosa che ho cercato di fare io nel film»

Una dichiarazione impegnativa, destinata a far discutere, ma che Akin non ha timore a chiarire: «Honka era chiaramente un uomo disturbato, ma il mio scopo non è dire perché era così, perché fa quello che fa. E ovviamente non voglio che parteggiamo per lui, ma vorrei che lo spettatore seguisse il viaggio che fa… Questo non significa affatto dare meno peso alle vittime, anzi, ma c’è una cosa a cui fare caso. La violenza e la violenza sessuale in particolare oggi sono un tema all’ordine del giorno, ma invece nel film è chiaro che in quegli anni Honka ha potuto agire indisturbato perché nessuno si curava delle donne che lui uccideva. »

La ricostruzione di Akin è puntigliosa fino all’ultimo dettaglio negli interni che dominano la pellicola. In questo la musica svolge un ruolo fondamentale: sia che escano dal jukebox o dal giradischi che Honka mette in funzione per coprire il rumore della segna con cui smembra i cadaveri (che poi stiva nelle intercapedini di casa…) le canzoni fanno da contrappunto efficacissimo all’azione. «Ho chiesto i diritti delle canzoni prestissimo, non tutti gli autori me li hanno dati perché sono rimasti un po’ impressionati da quello che il film mostra. Del resto sono consapevole che non si tratta di un film per tutti, ma fortunatamente ho potuto farlo esattamente come volevo »

A vestire i panni, o piuttosto la maschera, di Honka, è il giovane attore Jonas Dassler «Ogni giornata sul set cominciava con 3 ore di trucco e la sera ne serviva un’altra per smontare tutto…in mezzo recitavo. Un lavoro abbastanza intenso. Per prepararmi ho letto il romanzo di Strunk e ovviamente molta altra documentazione. Ho parlato con molte persone, ognuna con delle cose da raccontare su Honka, ma a un certo punto ho dovuto fare una sintesi mia, per non perdermi nei dettagli. Era un serial killer, ma anche un essere umano in cerca di una certa normalità…una normalità quasi piccolo borghese»

Ma come si arriva a costruire un personaggio del genere? A spiegarlo, entrando anche nel dettaglio tecnico, è sempre Akin. «Nel caso di Honka la mostruosità era in qualche modo anche un fatto esteriore: quel volto deformato, quasi da Frankenstein, con il naso rotto e i denti rovinati, era impossibile da trovare in un attore e così abbiamo optato per una maschera…Ho realizzato che era l’unica strada vedendo un film come The Darkest Hour dove Gary Oldman interpreta Churchill, ma ancora di più ricordando Il gobbo di Notre Dame interpretato da Anthony Quinn. Poi c’era la questione degli occhi e dello strabismo. Per riprodurli il povero Jonas doveva portare delle lenti che coprivano tutto l’occhio e lo rendevano più grande. Non poteva portarle più di 20 minuti di fila altrimenti l’occhio non respirava. »

È un approccio molto tecnico, in cui il personaggio si sviluppa a partire dai dettagli esteriori (l’abito, il modo di muoversi, ecc.) «Se pensate al metodo Stanislavskij capite come abbiamo lavorato».

Il risultato è una pellicola orgogliosamente di genere (c’è da crederci, visto che Akin ha raccontato che il primo film visto da ragazzino, che lo convinse a fare il regista, è stato La notte dei morti viventi di Romero…), in cui non mancano tuttavia influenze del grande cinema tedesco (Norferatu tra tutte). « Sono un regista tedesco, sono cresciuto con quel cinema e l’ho studiato…e sono un regista che vive ad Amburgo per cui credo che continuerò a raccontare storie di tutti i generi che si svolgono lì…»

 

Foto: Courtesy of Berlinale 2019/ © Gordon Timpen / 2018 bombero int./Warner Bros. Ent.

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