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Berlino 2019: The operative, ritratto di una spia

Berlino 2019: The operative, ritratto di una spia

Una telefonata, una frase in codice. Per Thomas (Martin Freeman), inglese ed ebreo, agente del Mossad, è tutto quello che serve a capire che Rachel Currin (Diane Kruger) è tornata. Rachel, un passato misterioso e un’eccezionale padronanza delle lingue, è stata anche lei una spia, che Thomas ha “diretto” in alcune operazioni in Iran, legate al programma di sfruttamento dell’energia nucleare, forse a scopi militari. Ora la donna è una scheggia impazzita che bisogna fermare prima che faccia saltare il banco e Thomas, che la conosce meglio di ogni altro, è l’unico che può ricostruire la sua storia e sperare di ritrovarla. Ma negli anni in cui ha vissuto la sua vita di menzogne, rischiando la vita, usando la sua bellezza per sedurre e la sua intelligenza per rubare segreti, Rachel ha imparato anche cosa aspettarsi dai suoi ex superiori…

Tratto dal romanzo The English Teacher di Yiftach Reicher Atir, il nuovo film di Yuval Adler (che di spie aveva già parlato nel precedente Bethlehem) è in realtà soprattutto una storia di personaggi.

«Quando ho letto il romanzo, che è stato scritto da un ex operativo del Mossad ed è quindi molto ben documentato, sono stato colpito dalla sua struttura inusuale. Il fatto che fosse raccontato in prima persona, quella di Rachel, dando alla storia un punto di vista totalmente soggettivo.  In realtà quello è stato il punto di partenza perché con la sceneggiatura e il film siamo andati in un’altra direzione, perché il gioco è sempre tra il punto di vista di Rachel e quello di Thomas, ma quello che è rimasto è proprio il senso della prospettiva del singolo personaggio su ciò che accade»

Un film contro il Mossad? Una presa di posizione nel confronto tra Israele e Iran sul controllo dell’uso del nucleare?

«In realtà il mio film non è contro il Mossad. Per altro tutto quello che racconto è stato in qualche modo già “pubblicato” quindi non penso né voglio svelare dei segreti. Mi interessava raccontare più l’esperienza umana della spie e del suo rapporto con l’agenzia per cui opera. Non mi interessa, per così dire, la lettera dello spionaggio, ma lo spirito. In questo senso il Mossad rappresenta qualunque organizzazione di intelligence che per sua natura è manipolativa  »

Senza dubbio, tuttavia, la donna che è al centro del racconto, e viene scoperta attraverso i rapporti delle operazioni a cui ha partecipato e i segreti che il suo superiore Thomas ha condiviso con lei ed è ora costretto a svelare, è speciale.

«Rachel non è una superspia, non è James Bond né Jason Bourne – dichiara la protagonista Diane Kruger – è una persona reale, che lavora a lungo senza nemmeno sapere a cosa servono le informazioni che raccoglie, trascorrendo mesi e anni con una falsa identità, lavorando, facendo amicizie, innamorandosi… è una vita strana e per certi versi alienante. Perché è inutile nasconderlo ma mentire alla gente crea ansia e a poco a poco cambia la tua identità».

Ma allora perché Rachel ha voluto così fortemente questo “mestiere”? «Rachel non è ebrea, e tuttavia ha scelto di entrare nel Mossad, forse in cerca di un’appartenenza che non aveva mai avuto nella sua vita» continua a Kruger, che nel film passa con disinvoltura dall’inglese al tedesco al francese, dimostrando che la sua natura di attrice “internazionale” la rende davvero perfetta per il ruolo di una donna capace di scomparire nella sua falsa identità.

A Martin Freeman è toccato un compito ancora più bizzarro, dal momento che il suo Thomas è sì ebreo, ma non parla l’ebraico, che però capisce per cui i suoi dialoghi sono spesso recitati alternando le due lingue e sottolineando con questo la distanza tra Thomas e i suoi colleghi.

«Thomas e Rachel sono due outsider – conferma il regista – ed è per questo, forse, che alla fine possono capirsi…e fare le loro scelte»

 

Foto: Courtesy of Berlinale 2019/ © Koljia Brandt© Kolja Brandt© Kolja Brandt

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