Bismillah di Alessandro Grande: la nostra recensione del miglior corto ai David di Donatello 2018

Protagonista Samira, una bambina tunisina di dieci anni in Italia insieme al padre e al fratello. Il film è stato scelto tra 265 titoli partecipanti

Bismillah di Alessandro Grande

Bismillah di Alessandro Grande è il vincitore del David di Donatello 2018 come miglior cortometraggio: l’annuncio è stato dato ieri nel corso della conferenza stampa dei premi destinati al meglio del cinema italiano dell’anno, presso la sede Rai di Roma a Viale Mazzini, alla presenza di Piera Detassis, presidente e direttore artistico della Fondazione David di Donatello. L’apposita giuria di addetti ai lavori che ha assegnato il premio è composta da Andrea Piersanti (presidente), Francesca Calvelli, Enzo Decaro, Leonardo Diberti, Paolo Fondato, Enrico Magrelli, Lamberto Mancini, Mario Mazzetti, Paolo Mereghetti.

Bismillah, dunque, rappresenterà l’Italia nella corsa al miglior cortometraggio degli Oscar del prossimo anno ed è stato selezionato tra 265 titoli partecipanti. Il regista di origini calabresi, Alessandro Grande, aveva già raccolto un enorme successo con il suo corto precedente, Margerita, vincitore di oltre 78 premi nel mondo e nominato ai Nastri d’argento. Tra gli altri cortometraggi candidati quest’anno ai David c’erano anche Confino di Nico Bonomolo, La giornata di Pippo Mezzapesa, Mezzanotte zero zero di Nicola Conversa, Pazzo & Bella di Marcello di Noto.

Prodotto dal regista insieme alla Indaco Film di Luca Marino – con il supporto di Rai Cinema, Calabria Film Commission e Comune di Catanzaro – e distribuito da Zen Movie, Bismillah è un tenero racconto in miniatura che nei suoi appena quattordici minuti di durata riesce a tratteggiare in maniera delicata e pudica, ma allo stesso tempo commovente e pulsante, il coraggio e il dolore di Samira, una tunisina di dieci anni che vive illegalmente in Italia con il padre e il fratello, Jamil, 17enne, che purtroppo è malato.

Un corto che inevitabilmente prende le mosse dai fatti del 2011, anno in cui la primavera araba portò in Italia la cifra record di 23mila persone: il più grande numero di immigrati tunisini nella storia del paese, dei quali oltre la metà non inseriti regolarmente nella nostra società, costretti a fare i conti con la propria condizione di clandestini (e di fantasmi). Con umanità e naturalezza il corto di Grande si inoltra in questa storia ordinaria di inadeguatezza, vista attraverso gli occhi di una ragazzina che si ritrova ad affrontare un disagio profondo e paralizzante come la malattia di un familiare. Da fronteggiare, nel suo caso, senza poter contare su strutture esterne o forze che non siano le sue, perfino nell’andare in cerca di un medico disponibile.

Si tratta di un cortometraggio semplicissimo e scarno, che racconta un piccolo squarcio di compassione particolare ma anche universale, aderendo così, in maniera sommessa ma non per questo non politica, ai bisogni e alle mancanze di un gran quantità di persone che vivono dentro il paese e che dall’opinione pubblica e mediatica di rado vengono considerate altro se non numeri: una categoria sociale privata della propria storia umana e personale, derubricata a cifre in entrata senza volto e senza nome. Le tonalità del corto sono asciutte a livello sia etico che estetico: Grande evita le spettacolarizzazioni e la retorica, che al cospetto di una simile materia sarebbe risultate ridondanti e doppiamente imperdonabili, si concentra su una porzione microscopica di mondo e la illumina dal basso, senza nessun artificio.

Appare in particolare notevolissima, a tal punto da farne la forza interna maggiore del prodotto e il suo pilastro portante, l’interpretazione della bambina che recita nei panni della protagonista, Linda Mresy. Selezionata dopo una serie di provini organizzati con il centro socio-culturale tunisino di Roma, la sua è una presenza che non si dimentica, una vera e propria epifania neorealista.

Sia per il modo soave e magnetico con cui la piccola intona il canto religioso che costella tutto il corto (Bismillah è la formula araba traducibile con «In nome di Dio, Clemente, Misericordioso» con cui si aprono le sure del Corano), sia, soprattutto, per quell’incredibile e intensissimo primo piano finale, per il quale è difficile non far tornare la mente a quella frase citata da Nanni Moretti nel suo cortometraggio Il giorno della prima di Close-Up, parafrasando quanto dichiarato dal regista Martin Scorsese a proposito del grande autore iraniano Abbas Kiarostami: «Ma come fai a dirigere così bene i bambini, che è così difficile?».

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