Cannes 2013: The Congress, il futuro è un allucinazione. Ecco lo sci-fi animato del regista di Valzer con Bashir

Vi raccontiamo il film con Robin Wright e Harvey Keitel che apre la Quinzaine des Realisateurs, sezione parallela del Festival

The Congress di Ari Folman (regista di Valzer con Bashir), con Robin Wright e Harvey Keitel, aprirà stasera la Quinzaine des Realisateurs, sezione parallela del Festival di Cannes. Ecco la nostra recensione del film, di cui è da poco terminata la proiezione stampa.

Los Angeles, oggi. Robin Wright, interprete nei panni di se stessa, è un attrice sul viale del tramonto. Dieci anni di scelte sbagliate, private e professionali, hanno compromesso la sua immagine e la sua carriera, come le ricorda esasperato l’agente/psicologo (Harvey Keitel, bentornato). Alla soglia dei 45 anni, l’unica nuova proposta che le arriva dal fantomatico studio Miramount – che ha le fattezze di un luciferino Danny Huston, personaggio coeniano con il miglior monologo del film, una specie di costola del producer di Barton Fink – è quella di cedere integralmente i suoi diritti d’immagine per i successivi vent’anni. Non dovrà più recitare, lasciando campo libero ad un clone digitale, creato interpolando le registrazioni di ogni sua espressione. In questo modo non invecchierà più e comparirà in un film dopo l’altro, pur non interpretandone nessuno.
Robin tentenna, ma poi cede: ha un figlio malato, a rischio sordità e cecità, e quindi altro cui dedicarsi.

Stacco, e sono passati vent’anni: l’attrice, ormai attempata, si reca in Porche (d’epoca: è del 2013) al Congresso Futurologico organizzato dalla Miramount Nagasaki, colosso corporativo che fonde i settori della chimica e dello spettacolo, ed è ispirato da un santone con le fattezze di Steve Jobs (Reeve Bobs…). Ha creato un nuovo tipo di droga, che è anche intrattenimento e stile di vita: consente di vivere sospesi in un allucinazione animata, in cui ciascuno proietta di sé l’immagine che preferisce. Al Congresso ne succedono di ogni, compreso un attentato terrorista, e Robin – sull’orlo di una crisi di nervi – viene ricoverata e poi congelata per i successivi vent’anni (altri venti). Quando si sveglia, il mondo intero è un’allucinazione collettiva: da qualche parte, tra realtà e delirio, ci sono i suoi figli, e lei li vuole ritrovare.

Il delirio distopico che vi abbiamo illustrato, viene raccontato da Ari Folman con toni continuamente mutevoli (pure quelli): non solo si passa dal live action all’animazione birichina (stile Tex Avery) e poi di nuovo al live action con disinvolura; ma pure dalla satira al melò (quello surreale, alla Charlie Kaufman) fino alla fantasmagoria pura, come se un film dei citati Coen si trasformasse improvvisamente in uno di Kon Satoshi (Paprika). Una ricchezza impressionante di temi e stimoli, molti dei quali sono per altro merito del polacco Stanislaw Lem, autore del romanzo d’origine, che all’inizio degli anni ’70 immaginò un futuro di decadenza chimica per la società ancora oggi credibilissimo. Ma Folman risponde a quella ricchezza con altrettanta ricchezza di forme e idee: ricchezza sostanziosa, che rende già grottesco il kitch digitale di Luhrmann, in cui gli attori potrebbero essere proprio i cloni artificiali immaginati da questo film.

Doppia menzione d’onore, in chiusura: la “registrazione” del corpo di Robin Wright, guidata dalla voce di Harvey Keitel, potrebbe restare a lungo la sequenza più bella dell’intero Festival. E un cameo di Tom Cruise, a metà film, è già cult.

Guarda il trailer del film.

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