Cannes 2014: Grace di Monaco, la nostra recensione

Abbiamo visto in anteprima il biopic con Nicole Kidman che ha aperto la 67esima edizione del Festival

«La vera favola è credere che la mia vita sia una favola», l’autentica Grace di Monaco dixit. Frase su cui il francese Olivier Dahan incentra il suo film, ma che poi sconfessa totalmente nella pratica confezionando una favola a tutti gli effetti. Una vera e propria fairy tale, perché garante di quell’«…e vissero tutti felici e contenti» senza cui le storie di Cenerentola e di tutte le altre principesse Disney non potrebbero stare in piedi. E c’è persino una strega cattiva manipolatrice, altro ingrediente ricorrente…

Va chiarito subito che Grace non è il racconto di una vita, ma di una parentesi della durata di un anno (il 1961 per l’esattezza), della vita della Kelly e delle rinunce fatte dall’americana per aderire al protocollo e alla Ragion di Stato. Per aderire a ciò, la sceneggiatura si focalizza sull’anno delle scelte più importanti compiute dall’ex attrice per mantenere fede al patto d’amore stretto col marito e con i sudditi del Principato, ovvero quello in cui Hitchcock chiese alla sua musa di tornare a recitare e di accettare il ruolo di protagonista in Marnie. Il Premio Oscar fu molto combattuto, specie perché il suo ingaggio fu interpretato dai monegaschi come un rifiuto del proprio ruolo di reggente e strumentalizzato dall’entourage del presidente francese De Gaulle in chiave anti-Ranieri.

In assenza di documenti ufficiali, il regista lavora molto di fantasia e costruisce un plot-pastiche che mescola generi disparati a partire da spunti anche interessanti, ma male organizzati. Il film parte come un melò/feuilleton focalizzato sulla figura della “principessa infelice” (perché soffocata dall’etichetta di corte), scivola nel dramma storico con tanto di minaccia di guerra da parte della Francia, sbanda nella spy story e precipita – come già detto – in caduta libera nella favola, spruzzando il tutto di momenti farseschi, generando una confusione di toni che sottrae al tutto credibilità e sostanza.

L’idea è quella che l’amore vero non è quello romantico dell’incontro con il principe azzurro corredato da nozze favolose, «l’amore è dovere» dirà con solennità a Grace Padre Francis Tucker (Frank Langella), consigliere e amico fidato della Kelly di stanza nel Principato monegasco per tutti i primi sei anni del matrimonio dell’americana con Ranieri III. Abbiamo parlato molto di genere favolistico sin qui, ma che si dipana rispondendo a un severo e un po’ antiquato pragmatismo: l’idea di fondo è che Grace avrebbe realizzato davvero i suoi sogni nel momento in cui avesse scelto con tutta se stessa di essere madre affettuosa, moglie devota e leader compassionevole. E è quello che Grace fece, secondo la tesi sposata da Dahan, supportata dal sostegno di consiglieri fidati e fedeli come Padre Tucker e un Conte esperto in usi e costumi monegaschi, capace di trasformare una femmina anticonformista e ribelle di Filadelfia in Sua Altezza Serenissima Principessa di Monaco.

Dahan torna al biopic a sette anni di distanza da La Vie en Rose (il bellissimo ritratto di Edith Piaf) con un’ambizione estetica molto alta, come provano i campi lunghi, il piano sequenza iniziale e i primissimi piani alla Kidman, ma perde di vista il cuore del film, lasciando gli attori orfani di una guida sicura, tanto da ridurli a macchiette insulse (Ranieri/Roth, Tucker/Langella, Vega/Callas e così via). Nicole Kidman, con la classe e la professionalità che la contraddistinguono, si prende il film sulle spalle, cercando di riportare in vita un’icona senza tempo inimitabile, ed è abile come sempre a catalizzare l’attenzione su di sè, ma non può insufflare a forza vita a un copione senza mordente e con sviste di tono macroscopiche.

Conclusione: nel film c’è davvero di tutto, manca solo Grace Kelly.

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