Due cuori puri affamati d’amore a Cannes 70: la recensione dell’esordio di Roberto De Paolis

Un esordio potente su una storia d'amore impossibile e due solitudini di periferia, alla ricerca di una purezza che li salvi, li redima, conceda loro una speranza di rivalsa

I due giovani protagonisti di Cuori puri di Roberto De Paolis

Agnese (Selene Caramazza) è una ragazza di diciott’anni che ha ricevuto una rigidissima educazione cattolica da una madre, Marta (Barbora Bobulova), in apparenza tenera e amorevole ma in realtà freddissima e intransigente. La ragazza ha fatto voto di castità fino al matrimonio, frequenta le comunità religiose, affronta la sua età col timoroso distacco di chi ha visto la propria maturazione schermata da sovrastrutture altrui e di vario genere, senza poter spiccare il volo autonomamente, senza poter esprimere la propria voce in libertà.

Stefano (Simone Liberati) è invece un giovane con fin troppa autonomia, per via di una famiglia sbalestrata, prossima allo sfratto, che l’ha abbandonato a se stesso. Lavora in un parcheggio confinante con un campo rom. L’altro, il diverso, incarna in qualche modo tutte le sue paure. Il baratro della precarietà nella quale lui stesso teme di inciampare. Agnese e Stefano si conoscono per caso, dopo un piccolo furterello di lei, sintomatico di un certo disagio nello stare al mondo, che il ragazzo, per ottemperare al suo dovere di custode, tenta di punire.

Nonostante le scorie di una periferia che stritola i suoi abitanti e rimane sorda e cieca alle esigenze del singolo, ragionando solo in una malsana ottica comunitaria all’insegna dell’odio sociale, della ripicca e della rivalsa, Agnese e Stefano sono due cuori puri. Due solitudini che s’incontrano e si riconoscono, coltivando l’utopia della vicinanza e dell’ascolto, di un sentimento che nasca e cresca in direzione ostinata e contraria. Cuori puri in un mondo impuro (la periferia romana di Tor Sapienza), per il solo fatto di inseguirla, la purezza, di non arrendersi all’immobilismo che la vita e la famiglia vorrebbero cucire loro addosso.

Cuori puri al cospetto di una società impura, che li costringe a una dissociazione: lui, bullo di quartiere, spaccone sempre pronto alla prevaricazione e alla giustizia fai-da-te, odia il diverso perché vi riconosce l’imbarbarimento della propria integrità, la minaccia in grado di rappresentare, da sola, l’apocalissi del suo orticello di “benessere” che va in frantumi. Lei, ragazza casa e chiesa, costretta a continue deviazioni da un tracciato prestabilito per fare esperienza di se stessa, per riconoscersi umana, difettosa, tentabile da una trasgressione capace di spalancarle, per la prima volta, gli occhi e il cuore.

Il regista Roberto De Paolis, che viene dalla fotografia, dalla videoarte, anche dal giornalismo, racconta due marginalità opposte ma completamentari attraverso una love story di grandissima purezza poetica, aperta all’incertezza delle cose del mondo, alla precarietà derivante dal non averla, specialmente oggigiorno, una casella da occupare, uno stereotipo cui aderire più o meno supinamente. Tale e tanti sono l’amore e  l’attenzione partecipe ai destini di questi personaggi che De Paolis non li riduce mai a simboli, evitando così la dimensione alienante del Mito, ma li tallona e li cattura sempre e solo in quanto corpi: figure amanti e desideranti, irruente e virginali, incontaminate e selvagge.

Il cinema italiano che colpisce e che respira, alla 70esima edizione del Festival di Cannes, è un cinema italiano che sa ragionare sulla periferia non come categoria da talk show ma come spazio da ridefinire per ritrovare la verità di uno sguardo, di un gesto, di un bisogno. Lo fa Carpignano in A Ciambra, dove la periferia è terreno di prime volte che sanno già di morte e di fine, ma anche il Leonardo Di Costanzo de L’intrusa, in cui la scuola, l’esempio, l’insegnamento didattico sono roccaforti entro i quali riedificare una comunità impossibile e transitoria, remando controcorrente. Il Don Luca di Stefano Fresi, in Cuori Puri, è una figura analoga alla Giovanna del film di Di Costanzo, un’icona patriarcale e insieme matriarcale, che pungola e che preserva, fornendo prima di tutto una speranza.

L’opera prima di De Paolis, dal taglio maturo e consapevole, riprende il sofferto romanticismo del recente Fiore di Claudio Giovannesi e vi aggiunge l’elemento dell’intolleranza, religiosa e sociale: il razzismo di partenza di Stefano e l’apparente irreprensibilità di Agnese si sovrappongono, si confondono, si mescolano, problematizzandosi a vicenda e approdando a un finale che ribalta le carte in tavola con intelligenza e forza dialettica. Merito di una macchina da presa fluida e dinamica, onesta e sincera, che non si pone mai al di sopra di ciò che racconta, usando la ricerca sul campo (il film ha richiesto quattro anni complessivi di lavorazione, con un notevole approfondimento a monte) come chiave di volta per sovrapporre persone e personaggi, ma soprattutto per tramutare i pregiudizi e le convinzioni aprioristiche in idee che duellano tra di loro, producendo più domande che risposte.

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