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Cannes 2018, Christopher Nolan incanta il festival: «Io, bambino innamorato di Kubrick e 2001»

Il regista britannico sbarca per la prima volta sulla Croisette per presentare il restauro in 70 mm di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e raccontarsi in una masterclass presa d’assalto, tra tre ore di coda chilometrica e spintoni plateali: «Il viaggio che ho iniziato con quel capolavoro non è ancora finito e mi ha portato qui oggi».

Cannes 2018, Christopher Nolan incanta il festival: «Io, bambino innamorato di Kubrick e 2001»

Il regista britannico sbarca per la prima volta sulla Croisette per presentare il restauro in 70 mm di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e raccontarsi in una masterclass presa d’assalto, tra tre ore di coda chilometrica e spintoni plateali: «Il viaggio che ho iniziato con quel capolavoro non è ancora finito e mi ha portato qui oggi».

Christopher Nolan: masterclass da tutto esaurito al festival di Cannes

L’arrivo di Christopher Nolan sulla Croisette, com’era prevedibile, ha sconvolto completamente gli equilibri del Festival di Cannes: ore e ore di fila per accreditati e appassionati, molti dei quali rimasti fuori dalla non grandissima sala Buñuel, tra spintoni vistosi e attese fiume. La standing ovation che accoglie Nolan, ben più composto nel suo distacco british, è quella delle grandi occasioni, ma ancora più stupefacente è il silenzio ammirato con cui tutti i presenti stanno ad ascoltarlo per le successive due ore.

Nolan non era mai stato a Cannes, la sua è una prima volta di peso e l’occasione altrettanto d’eccezione: il regista inglese, 48 anni e nove film realizzati, è sulla Croisette per presentare il nuovissimo restauro in 70 millimetri di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, film che l’ha fatto innamorare del cinema, ma anche per raccontarsi in una masterclass da tutto esaurito su invito del direttore artistico di Cannes, Thierry Frémaux.

Alla conversazione assistono anche, in platea, il giurato del concorso Denis Villeneuve, cineasta canadese il cui cinema ha spesso mostrato più di un tratto in comune con quello di Nolan, e il popolare attore francese Dany Boon, ma anche Katharina Kubrick, figlia adottiva di Stanley, suo zio Jan Harlan, storico produttore del maestro newyorkese, e Keir Dullea, l’indimenticabile astronauta Bowman di 2001 (nella foto sotto in compagnia del regista). La felicità di Nolan nel parlare del film che ha rivoluzionato la sua vita è evidente, ma sull’onda lunga del capolavoro di Kubrick, che quest’anno compie cinquant’anni, l’autore di Dunkirk si lascia andare a un dialogo ricchissimo, per contenuti e direzioni.

Chris Nolan e Keir Dullea

Quando hai visto per la prima volta 2001: Odissea nello spazio, che trova nell’edizione 2018 del Festival di Cannes una nuova vita?

L’ho visto la prima volta quando tornò in sala, sull’onda del notevole successo di Star Wars di George Lucas, esattamente l’anno dopo. Ricordo che mio padre mi portò a vederlo in sala su uno schermo enorme, in 70 mm, al cinema di Leicester Square a Londra: fu qualcosa di sovrannaturale per me che ero un bambino di sette anni. Fu come essere trasportato in un viaggio incredibile e sono molto emozionato all’idea di poter donare alle nuove generazioni la possibilità, grazie a questo restauro, di ammirarlo nelle stesse condizioni in cui lo vidi io allora, vivendo la mia stessa emozione primaria.

Quale pensi sia stata la più grossa influenza di 2001 su di te?

Vederlo all’epoca, ancora bambino, mi convinse che col cinema si potesse fare tutto, spingere i limiti oltre l’impossibile. Kubrick c’è riuscito, ha cambiato il cinema e spalancato una finestra per tutti i registi che sarebbero venuti dopo. Perché in fondo i limiti non sono reali, esiste soltanto la nostra immaginazione. Il viaggio che ho iniziato con 2001 non è ancora concluso. E oggi mi ha portato qui a Cannes, anche se mi fa sempre impressione vedere il mio nome accostato a quello di un genio assoluto.

Hai mai pensato di studiare cinema per fare il regista, quando hai deciso che era quella la tua strada?

A essere chiari non è che non volessi farlo, non sono stato proprio preso a una scuola di cinema. Ho fatto studi di letteratura, mio padre mi disse di prendere una vera laurea e che eventualmente se avessi voluto avrei potuto fare cinema dopo. Non lo ringrazierò mai abbastanza, perché grazie a quegli studi ho potuto imparare a muovermi a mio agio nelle strutture letterarie, tra i miti e le storie. Come diceva proprio Kubrick, che come me non fece scuole di cinema, il miglior modo per imparare a fare i film è farli. A questo lavoro mi sono avvicinato tra amici, con pochi soldi tra le mani, lavorando in 16 mm. Alla fine oggi sul set giro tutto io, anche le cose meno importanti: sono quelle a fare la differenza.

Che ricordo hai dei tuoi esordi?

Following, il primo film che ho realizzato, l’abbiamo girato di sabato perché durante la settimana eravamo tutti impegnati col lavoro e ognuno di noi doveva saper fare tutto: non potevi sapere chi sarebbe stato libero il weekend successivo! Così facendo, anche se sembra uno scherzo, ho imparato l’importanza di tutti i reparti e oggi parlo con ogni tecnico sul set facendogli capire quanto tengo al suo lavoro e quanto conosco la sua importanza. Ai giovani dico di provare ogni aspetto del fare un film, come feci io: luci, inquadrature, suono, montaggio. A parte la recitazione, però: per quella non puoi ottenere alcuna sicurezza.

Nel corso della tua carriera, però, hai continuato a lavorare con figure a te vicine: amici, ma anche familiari. Con tuo fratello Jonathan hai scritto la trilogia di Batman, tua moglie Emma Thomas è da sempre la tua produttrice storica.

Posso essere franco, tanto mia moglie non c’è! Emma ha prodotto tutto ciò che ho fatto ed è bellissimo lavorare con coloro che ti stanno accanto, che non sono interessati ad altro che a far sì che il tuo film sia il migliore possibile. Se loro mi dicono che sto sbagliando, lo so che è per il mio bene. Mia moglie però è un vero mistero: è allo stesso tempo la mia compagna, la madre dei miei quattro figli e la persona insostituibile che è per il mio lavoro. Non so come faccia…Lavoro spesso con la mia famiglia (biologica e professionale) perchè credo sia il modo migliore per ottenere ottimi risultati. Con mio fratello Jonathan mi confronto spesso in fase di scrittura. Abbiamo collaborato quasi sempre, seppur in maniera ogni volta diversa. Poi da diversi anni collaboro costantemente con Hans Zimmer per il reparto musicale, mentre ho spesso affidato la direzione della fotografia a Wally Pfister.

Sei stato anche un pioniere dell’IMAX per il cinema hollywoodiano. Come nasce il tuo amore per questo formato, che hai riversato in maniera monumentale nel tuo ultimo film, Dunkirk?

Mi ci sono imbattuto per la prima volta quando ero ragazzo, in dei documentari da 40 minuti nei musei. Pensai che era il futuro del cinema e che sarebbe stato il massimo se quelle immagini avessero potuto sposarsi alla spettacolarità della macchina hollywoodiana. Ne Il cavaliere oscuro, per esempio, abbiamo usato una macchina da presa mai usata prima per introdurre Joker: un processo complesso, ma con una resa eccezionale. Girare Dunkirk tutto interamente in IMAX è stata la realizzazione del mio sogno da sedicenne.

Qual è l’aspetto più entusiasmante nel lavorare a grosse produzioni, alle quali sei ormai abituato?

Con i film ad alto budget la cosa bellissima è che puoi creare dei mondi in cui immergere lo spettatore, solo per la fantasia di chi vede: mi sono accorto che alla fine i miei film rispondono all’idea originaria e questo mi conforta, significa c’è un approccio convinto e solido. Voglio che lo spettatore costruisca il suo film, con la stessa libertà che ci metto io. Per questo non amo parlarne e rivelare in anticipo di cosa parleranno.

Cosa ti affascina maggiormente di Batman, personaggio dei fumetti al quale ha dedicato ben tre film?

L’aspetto del personaggio meno approfondito è la sua dimensione noir, che poi è anche il genere in cui mi sento più a mio agio, perché in esso i personaggi vengono giudicati dalle azioni, non dalle parole. Batman non ha alcun superpotenze se non la sua ricchezza, ma la paura e il senso di colpa lo caratterizzano come in un thriller. Lì stata la sua umanità, mentre ho voluto fare tre film diversi con tre cattivi diversi per esplorare tutte le atmosfere possibili: nel primo un mentore che si  fa avversario ideale, nel secondo un agente del caos come Joker e nel terzo ci spostiamo verso la mitologia pura e semplice.

Quali altri modelli ti hanno ispirato per lavorare all’Uomo Pipistrello?

Posso citare senz’altro Michael Mann, all’epoca de Il cavaliere oscuro, ma anche Racconto di due città di Dickens, per non parlare dell’epica greca e orientale che hanno nutrito la mia visione di Batman, col quale abbiamo ridefinito il genere proprio come con Dunkirk per il film storico: non si era mai visto quel conflitto ad altezza dei soldati. 

Ogni volta che c’è in produzione uno 007 si fa il tuo nome. E tu hai anche dichiarato che ti piacerebbe, un giorno, dirigerne uno.

Mi piace molto James Bond e, come per Batman, mi ero candidato per ridare normalità a questi personaggi, rendendoli non solo supereroi ma individui in carne e ossa. Un regista è molto fortunato perché può scrivere davvero il suo film almeno tre volte: sulla pagina, durante le riprese quando lo rimodella sugli attori e nei luoghi e infine al montaggio. Lavorando con Michael Caine, per esempio, non abbiamo mai temuto di ispirarci ad alcuni aspetti di Bond, che come sapete è un personaggio che amo. Dei miei film, invece, il più vicino alla saga di Bond è Inception! Dopotutto i miei temi ricorrenti mi portano sempre altrove, al mistero della mente, al senso di colpa e giustizia, alla fiducia e al tradimento. Non sono uno che si accontenta.

Foto: Getty Images

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