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Case infestate, musica metal e inquietudine horror: la recensione di The Devil’s Candy

Dopo l'ottimo The Loved Ones, l'australiano Sean Byrne ci regala un altro film carico di ansia e spasmo

Case infestate, musica metal e inquietudine horror: la recensione di The Devil’s Candy

Dopo l'ottimo The Loved Ones, l'australiano Sean Byrne ci regala un altro film carico di ansia e spasmo

The Devil's Candy

Un pelato sovrappeso si sveglia nella sua camera. È notte, ma a disturbare il silenzio sono dei bisbigli demoniaci. C’è un crocifisso appeso sul muro, e il nostro, in preda a non si sa quale incontrollabile impulso, prende la chitarra elettrica in mano e inizia a emettere delle gran distorsioni dall’ampli, di quelle che ti entrano dritte nei timpani fino a spaccartele. La madre, in ansia, va a vedere cosa sta succedendo; lui, dal canto suo, le spacca la chitarra in testa facendola precipitare giù per le scalinate.

Inizia così The Devil’s Candy, opera seconda dell’australiano Sean Byrne a diversi anni di distanza da The Loved Ones. Allora l’autore esaltava gli appassionati di cinema horror con un romance giovanile che si tramuta in un sadico torture porn; qui, invece, si trasferisce negli States per dire la sua sul genere “case infestate”, mescolando in un unico pacchetto possessioni e slasher, racconto familiare e ossessione nevrotica. Suona come la solita banale combinazione, ma a catturare ancora una volta è l’abilità del cineasta nel costruire un’atmosfera perennemente ansiogena e conturbante nonostante le scene più violentemente esplicite non siano poi moltissime, anzi…

The Devil’s Candy procede a combustione lenta con piccoli ma incisivi colpi e delle soluzioni estetiche sempre curate e affascinanti (dall’iconografia religiosa tirata in ballo alle scelte cromatiche), creando un magnetico miscuglio che parte dai cliché ma arriva in un territorio che è altrove, grazie anche a un montaggio che ama giocare con delle inconsuete associazioni visive, piuttosto che precipitarsi nella caotica frenesia tipica di molti horror contemporanei. E poi, beh, c’è la presenza della musica Metal, qui usata non tanto in comunione col diavolo e il satanismo, bensì proprio come elemento narrativo, oltre che voluto e dovuto omaggio.

Peccato giusto per il finale un po’ raffazzonato e con della CGI imbarazzante, ma chi può si tuffi nel buio della sala e si goda i brividi sulla pelle.

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