Quando lo incontriamo non sono passate nemmeno 24 ore dall’annuncio che sarà nel cast del nuovo James Bond, nel ruolo misterioso del probabile villain Oberhaum. Considerando che il titolo del film è Spectre, già in molti sognano che Cristoph Waltz si riveli alla fine la nuova incarnazione del mitico Ernst Stavro Blofeld, il cattivo dei cattivi, capo della potentissima organizzazione terroristica che opera su scala globale e comparso già in sette film, a partire da Dalla Russia con amore (1963) e fino a Solo per i tuoi occhi (1981). Nel frattempo, però, l’attore che si è portato a casa due Oscar grazie a Quentin Tarantino, è a Milano per raccontare il ruolo di Walter Keane che interpreta nel nuovo film di Tim Burton, Big Eyes. Non la solita fiaba gotica, ma un racconto biografico sottilmente inquietante, in cui Waltz veste i panni di un uomo che plagia la moglie Margaret (Amy Adams), autrice dei celebri quadri di bambini dagli occhi grandi, attribuendosi il merito delle opere – celebre esempio di kitsch irresistibile –, fino a costruire un vero e proprio impero finanziario sul talento altrui. Un ruolo che esalta ancora una volta il suo talento istrionico, quell’inconfondibile stile di recitazione ultra manierato, quasi lezioso, eppure irresistibile che – scopro – usa anche durante le interviste.
Best Movie: Quand’è stata la prima volta che hai incontrato Tim Burton?
Christoph Waltz: «Eravamo in un aeroporto, ma non mi pare avessimo parlato di nulla in particolare. È accaduto molti anni prima che iniziassimo a discutere di Big Eyes. Quando è successo siamo partiti ragionando di arte in generale, di cosa consideravamo kitsch e i due punti di vista generali sulla faccenda: quelli che sono completamente contro e quelli che invece sono totalmente a favore, e nessuno che stia nel mezzo. Gli dissi: “Io faccio decisamente dalla parte del primo punto di vista”».
BM: E lui?
CW: «Lui dice che ci trova qualcosa che lo ispira. Non è tanto un’ispirazione che viene dall’analizzare con cura un dipinto dal punto di vista tecnico, è un’ispirazione che deriva da ciò che rappresenta, in questo caso un’epoca. Sì, Tim è di qualche anno più giovane di me, ma grosso modo abbiamo la stessa età, e quest’arte che è al centro del film aveva a che fare con la nostra infanzia, un’epoca di grandi eventi che ci ha portato a vederci nel modo in cui ci vediamo».
BM: Collezioni quadri?
CW: «No. E diciamo che quello che vorrei collezionare lo dovrei rubare, perché non me lo posso permettere».
BM: C’è qualche talento artistico che rimpiangi di non possedere?
CW: «Oh, certo, tutti quanti veramente! (ride) Sono particolarmente invidioso dei pianisti, dei grandi registi di teatro… ed effettivamente sono invidioso di molti attori».
BM: Per esempio?
CW: «John Gilbert non è uno tra i miei attori preferiti, ma sicuramente è un bel punto di riferimento».
BM: La prima impressione è che questo non sia il classico film di Burton eppure, ho letto, tu sostieni il contrario.
CW: «Certo. Perché Tim non è un decoratore di scenografie, e solo perché questo film non ha quelle atmosfere gotiche che tutti si aspettano da lui non vuol dire che non abbia la sua impronta. Non ci sono effetti speciali, ma credo l’abbia fatto per se stesso, come se volesse fare un passo indietro. Non era un film per mostrare quanto fosse bravo, sappiamo tutti di cos’è capace nei film più “esuberanti”… Sai, è come quando bevi un sacco di cocktail e poi ti sembra una buona idea provare del gin liscio per riassaporare il gusto che ha».
BM: Parliamo del tuo personaggio. Si può considerare un bugiardo patologico?
CW: «No, io dico che non lo è. Non è la semplice storia di una povera pittrice sposata ad un bugiardo patologico. Altrimenti sarebbe una noia non credi? C’è un solo momento di puro raggiro, uno solo. Da quell’unico momento in poi le cose esplodono, ma Elizabeth sa sempre chi è suo marito, chi ha di fronte. Questo è ciò che fa la storia interessante e la loro relazione realistica».
BM: Però verso la fine, quando Walter difende se stesso in tribunale, sembra un po’ schizofrenico…
CW: «Siamo tutti certi della definizione di schizofrenia? Il tentativo era piuttosto quello di mostrare le esagerazioni di un percorso umano il cui unico scopo è il successo. Nel momento in cui Walter Keane non ce l’ha più, non riesce più nemmeno a comprendere se stesso, diventa grottesco».
BM: Pensi che una storia tra marito e moglie come questa possa accadere anche ai giorni nostri?
CW: «Assolutamente. Per quanto i primi quindici anni di questo nuovo millennio non siano nemmeno lontanamente paragonabili agli anni ’50, tuttavia i rapporti di coppia sono ben lontani dall’aver trovato un punto di equilibrio. Proprio poco fa leggevo un articolo che analizzava queste nuove relazioni che nascono attraverso i social media… Ogni epoca ha le sue sfide e le sue battaglie per cui lottare».
BM: Riguardo alla tua carriera, hai mai paura che Hollywood ti incastri in questa figura del perfetto villan? Ti sta bene?
CW: «Non lo so. È un rischio o un’opportunità? Certamente quello che dice la critica è un buon giudizio per vedere a che punto ti trovi della tua carriera, ma non bisogna mai dimenticare che un film è pur sempre un prodotto commerciale, e anche piuttosto costoso. John Boorman ha scritto un bellissimo libro su questo, Money Into Light, che esprime esattamente cosa sia un film: soldi sotto i riflettori. Non ti puoi aspettare che qualcuno tiri fuori 4 milioni di dollari senza che speri di avere qualcosa in cambio».
BM: Allora cambio la domanda: come scegli cosa fare e cosa no?
CW: «È un insieme di tantissime cose: la storia, la parte che ti offrono, e devo ammettere che guardo sempre di più anche a chi produrrà il film. E poi tantissimo dipende dalle relazioni umane. Si comincia sempre con l’intessere relazioni: lavori con un regista con cui avresti sempre voluto collaborare, e magari il film può non andare benissimo, ma almeno hai la possibilità di conoscerlo, di scoprire come lavora, e poi mantenerti in contatto se ci fossero opportunità future».
BM: Ok, però è facile immaginare il perché tu abbia voluto lavorare con Polanski, piuttosto che con Burton, o nel nuovo 007. Più strana è la scelta di una commedia come Come ammazzare il capo 2.
CW: «Perché questa è un’altra delle cose che mi piace fare: sperimentare. Non avevo mai fatto una commedia americana commerciale o da botteghino come questa. Tra l’altro con i tre protagonisti che, venendo dalla commedia, improvvisavano moltissimo, e ci vuole una grande abilità in questo, io per esempio non sono in grado. È stata un’esperienza fantastica. Andavo sul set come un bambino che va allo zoo: “Wow, guarda questo! E quello!”. È stato bellissimo: mi hanno dato un’opportunità che magari non avrò più».
BM: Qualcuno era stupito di averti lì?
CW: «C’erano un sacco di persone che mi dicevano che ero troppo qualificato… E io pensavo: “Cosa? Per un lavoro?” Sono un attore, faccio questo per vivere!».
BM: Un’ultima cosa… Cosa ci puoi dire sulle aspettative che hai per 007?
CW: «Le aspettative sono altissime, e io sono estremamente eccitato all’idea di far parte di un film di 007, sarebbe da pazzi non esserlo!».
(foto: Getty Images)
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